Enzo Vitello (Filippo Timi) è un uomo di mezza età che ha perso del tutto la voglia di vivere. Anzi, più che alla vita in sé, sembra aver rinunciato a esistere. Ogni istante delle sue giornate è scandito costantemente da un senso di asfissia soffocante, come venisse imboccato a forza con cucchiaiate di terriccio secco che è obbligato a ingoiare senza neppure un goccio d’acqua. Mangia a malapena, dorme a stento, sembra non bere neanche, fatta eccezione per le birre a basso costo di cui si ubriaca alla sera, quando si isola per rimanere solo. Non parla mai, se ne sta per conto suo, come afflitto dal peso di un segreto inconfessabile che tormenta i suoi pensieri, rendendo la sua mente un luogo infernale dove impazzire lentamente. La sua esistenza logora si è consumata come fosse un frutto troppo maturo, divorato con voracità avida dai vermi. Con la coscienza appesantita, trascina con sé il ricordo di aver abbandonato sua figlia Ambra (Carlotta Gamba) quando ancora era troppo piccola per capire, privandola dell’affetto paterno e strappandoglielo via con violenza, senza alcuna spiegazione. Uno strappo netto, doloroso e fulmineo, simile al togliere un cerotto appiccicato a una fitta peluria spessa.
Però, ora che lei è cresciuta, come un amante in pena la supplica quasi ogni giorno di ritornare da lui. Ma Ambra adesso è grande, è diventata una giovane donna e non nel migliore dei modi: vive in una baracca insieme a due amiche, circondata dal degrado e dalla puzza, si fa di eroina, di pasticche, di qualunque droga sintetica che l’aiuti a smarrirsi negli angoli più bui della sua psiche. È bella e minuta come una bambola di porcellana, ma, esattamente come un giocattolo abbandonato, ha l’aspetto trascurato e sporco che fa a cazzotti coi lineamenti principeschi del suo viso. Odia profondamente il padre e lo rifiuta, ma sotto quello strato denso di acredine conserva un amore infantile e disperato da bambina abbandonata. Il suo cervello sembra essersi fermato ai dodici anni; forse colpa delle droghe di cui fa abuso che ne hanno intaccato le facoltà mentali, forse un leggero ritardo, ma si comporta come se fosse piccola e incapace di prendersi cura di se stessa. Tant’è che in una di quelle rare volte che accetta di passare del tempo con Enzo si fa portare alle giostre e lo supplica di guardarla giocare, mentre se ne sta immersa in una vasca piena di palline colorate, spingendo e lanciandosi addosso agli altri bambini. "Guarda cosa so fare, papà! Guardami!", ripete incessantemente come farebbe una bimba. Ma il tempo ormai è passato e di anni ora ne ha venti, tutto ciò che le servirebbe è riuscire ad affrontare il trauma dell’abbandono, il ricordo dell’essere stata depredata, proprio come in un furto, dell’affetto che il padre le ha portato via senza darle spiegazioni, senza concederle appelli.
In questo scenario di dolore e abiezione sembrano essere sprofondati entrambi in una pozza fatale di fanghiglia e sterco, costretti a vivere ognuno nella propria guazza stagnante. E mentre Enzo cerca disperatamente di rimediare ai suoi errori umani da genitore, di scavare nelle sue colpe per cercare perdono, un caso investigativo lo affligge richiedendogli più attenzioni di quante sia in grado di concedergli. Sta cercando un serial killer, lo chiamano Dostoevskij. Su ogni luogo del misfatto lascia un biglietto scritto a mano, una sorta di espiazione epistolare, descrivendo minuziosamente la scena e gli istanti che precedono i suoi atroci delitti. Infioretta la storia di quegli omicidi, arricchendola di una poesia che non le appartiene. Le sembianze delle vittime che ha appena ucciso, la loro estetica, l’espressione sui loro volti prima di esalare l’ultimo respiro, la lotta per non venire stroncati, espone tutto nei suoi scritti come fossero le pagine di un romanzo. In quelle lettere parla di sé, della sua anima, di esistenzialismo e di filosofia, come a voler cercare un pubblico al quale insegnare come si vive, per vantarsi implicitamente di una grandezza e di una superiorità di spirito che, in realtà, non possiede affatto. Quelle frasi sono ridondanti, intrise di una banalità stucchevole, non certo all’altezza dei primi pensatori del nichilismo. E in maniera poco originale dietro quegli omicidi si nasconde la necessità di essere ascoltato e visto, per sfuggire a un’esistenza deprimente e inconcludente esattamente come quella di Enzo. Sarà forse questa similitudine a far riscoprire a Vitello il desiderio di impegnarsi davvero in qualche cosa, per riuscire nell’obiettivo di trovare quell’omicida, nel quale vede un’occasione ghiotta per risollevare le sorti del suo destino?
Firmata dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, Dostoevskij è la nuova serie prodotta da Sky presentata in anteprima nelle sale italiane, in due atti, lo scorso 11 luglio. Introdotta inoltre lo scorso febbraio alla 74ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, nella sezione Berlinale Special, è una storia cupa e di spessore, che usa un linguaggio privo di ogni speranza di redenzione e giustizia. Girata tra Tivoli e Tivoli Terme, Guidonia e Ardea, la sceneggiatura si sviluppa in un paesaggio che appare nordico e paludoso, vicino a un fiume, non ben inquadrato. Per una scelta di regia, gli episodi sembrano ambientati nel 1980, ma in realtà prendono vita nei giorni nostri: dall’abbigliamento dei personaggi agli arredi e agli edifici, tutto sembra appartenere a un’epoca risalente a trent’anni fa. L’aspetto volutamente fatiscente degli interni casalinghi, la trascuratezza esteriore dei protagonisti, ogni cosa rimanda costantemente a una perenne sensazione di angoscia asfissiante, rimandendo saldamente ancorata a una trama opprimente per lo spirito. Tra paesaggi dalla natura selvaggia, incolta, trasandata e costruzioni letteralmente in rovina sembra un tour nel degrado edilizio delle realtà suburbane.
Non pochi sono i richiami alla prima stagione di True Detective e al cinema americano: ad esempio la scelta di girare alcune scene in una tavola calda che ricorda più un diner tipicamente statunitense, con tanto di bottigliette gialle e rosse per maionese e ketchup al centro dei tavoli, elementi non affatto in uso in Italia. Nonostante ciò non perde di indipendenza e, soprattutto nel secondo atto, ritrova una maggiore coerenza estetica con le nostre usanze. Va sottolineato, tuttavia, che in alcuni punti ci sono delle somiglianze con la serie Rai Non mi Lasciare, con Vittoria Puccini nel ruolo della protagonista. Ovviamente però Dostoevskij si contraddistingue con un livello qualitativo marcatamente superiore.
Tra primo e secondo atto c’è un crescendo netto e progressivo della sceneggiatura, soprattutto del personaggio di Enzo Vitello, che attraversa un viaggio profondo nella sua psiche deviata e sofferente per poi risalirne totalmente cambiato. La prima parte è una lunga riflessione caratterizzata dalla lentezza, un’escursione tra i propri limiti e peccati, non opponendovisi più, ma arrendendosi dinnanzi a essi e prendendone coscienza fino in fondo. Nella seconda parte c’è una sorta di rinascita dopo aver toccato la punta degli abissi, ma in modo animalesco e trascendentale, brutale e senza pietà, che non cerca più redenzione. Dà solo sfogo alla ferocia primordiale e senza compassione, tipica delle bestie. Costituisce il ritrovamento di una vita nuova abbandonando per sempre la morale, lasciando che i lati più oscuri e maligni della propria anima abbiano la meglio.
Cast assolutamente di pregio con un brillante Gabriel Montesi, anche se in un ruolo minore, ma è doveroso puntare l’attenzione sulla magistrale prova attoriale di Filippo Timi che si riconferma un grandissimo interprete. Estremamente violento, questo non è sicuramente uno spettacolo alla portata di tutti, per cui ne consiglio caldamente la visione, ma solo a chi è in grado di sopportarne il peso. 4,5 stelle su 5.