A Villerupt, un piccolo comune della provincia francese, sta per accadere qualcosa di irrimediabile che distruggerà per sempre la vita di uomo e dei suoi due figli. Pierre (Vincent Lindon) è un cinquantenne socialista, ex militante di sinistra, che lavora come ferroviere, rimasto solo a crescere Fus (Benjamin Voisin), il maggiore, e Louis (Stefan Crepon), il più piccolo, dopo aver perso la moglie. Entrambi ormai adulti, il minore si appresta a iniziare l’università alla Sorbonne di Parigi mentre il più grande, che non ha neanche finito la scuola, non sa cosa fare di se stesso. Come nel peggiore dei suoi incubi, il padre Pierre scoprirà ben presto che Fus si è unito a un gruppo di ultras neofascisti, mettendo a rischio la sua intera esistenza.
Come vi sentireste se un giorno, improvvisamente, scopriste che uno dei vostri figli è divenuto ciò che avete sempre trovato nauseante? Se il bambino che avete cresciuto, cercando di insegnargli i migliori principi e di educarlo a una buona morale, si è trasformato in un giovane adulto pieno di odio e con la coscienza nera come il catrame? A raccontarci questo possibile scenario mostruoso è stato lo scrittore Laurent Petitmangin nel romanzo pluripremiato “Quello che serve di notte”, pubblicato per la prima volta nel 2020: la storia straziante di un padre, che ha già dovuto affrontare la morte prematura della moglie, che scopre che suo figlio maggiore, un ragazzo di ventidue anni, ha stretto un pericoloso legame con un gruppo di neofascisti violenti.
Ma per quanto non esista giustificazione alcuna alla brutalità e alla libera scelta di divenire un picchiatore e un razzista, non possiamo non calcolare quanto l’attuale contesto sociale e politico dell’occidente stia diventando un fattore determinante che spinge a fiotti, soprattutto le nuove generazioni, nella direzione della destra estrema e delle ideologie più violente. Come nella teoria nietzschiana dell’eterno ritorno, pare che gli avvenimenti storici siano fatti per riproporsi, quasi uguali, a distanza di tempo. E difatti eccoci di nuovo qui, a ottant’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dell’olocausto, del nazismo hitleriano e del fascismo di Mussolini, ad aver di nuovo a che fare con la tendenza generale a voler cercare un capro espiatorio al quale attribuire gli insuccessi economico-sociali delle nostre Nazioni. Come i tedeschi con gli ebrei, i nuovi “colpevoli” di ogni fallimento nazionale, ma anche personale, oggi sono gli immigrati clandestini; principalmente sudafricani, sudamericani e asiatici. Ma, stranieri a parte, si avverte sempre più il desiderio irrefrenabile di un ritorno alla “caccia alle streghe”. Colpa anche dei social network che hanno creato non soltanto delle vere e proprie gogne mediatiche, ma hanno inoltre alimentato parecchio pregiudizi e nervosismo, aizzando i malumori della maggioranza delle persone che ne fanno uso.
La situazione poi si sta aggravando in modo preoccupante per lo smarrimento esistenziale giovanile: da i genitori che non sono in grado di essere di buon esempio e di comunicare con loro, al sistema scolastico che non è più capace di rappresentare un’istituzione culturale, ma anche etica e morale, allo Stato che non offre sbocchi professionali e occupazionali sufficienti, gli adolescenti e i ventenni dei giorni nostri non sembrano avere un progetto da perseguire, si sentono soli, abbandonati, non compresi e di conseguenza molto arrabbiati. Il tasso di disoccupazione giovanile è altissimo, il livello di istruzione bassissimo e la depressione è un male che si sta diffondendo a macchia d’olio. Come un serpente che si morde la coda, non avere strumenti per un’idealizzazione futura impedisce un naturale avanzamento nel mondo degli studi e del lavoro e più non si lavora, e di conseguenza non si guadagna, più la depressione aumenta.
Il tutto si ripercuote anche sulle generazioni precedenti, perché più i genitori si ritrovano in casa “figli zavorra”, più sono costretti a mantenerli osservandoli mentre vegetano, in attesa di capire che cosa fare di loro stessi. Pensate ora al danno di questo in un sistema quasi globalmente capitalista come il nostro, dove i soldi sembrano essere l’unico modo per avere una vita soddisfacente e felice. E non soltanto per poter mangiare o avere un’abitazione, ma per svolgere qualunque attività odierna. Siamo costantemente sollecitati all’acquisto, a sviluppare una necessità impellente di possedere oltre quello che possiamo permetterci. Consumismo, sovraproduzione, piattaforme ormai diffusissime per piani di rateizzazione anche per importi al di sotto dei 10 euro.
Premesso questo, ritorniamo all’inizio: pensate a un ragazzo di appena ventidue anni, orfano di madre, che non è neppure riuscito a prendere il diploma di metalmeccanico, che vive ancora col padre, un cinquantenne, ferroviere, con una casa e uno stipendio modesti, che vede suo fratello minore trasferirsi dalla provincia a una metropoli come Parigi per studiare all’università. Intelligente, ma infantile e poco colto, che ama suo fratello sopra ogni cosa, ma che non può fare a meno di sentirsi inferiore e involontariamente giudicato nel paragone. È costretto a osservare quel fratello col quale è cresciuto abbandonarlo per progredire con la sua vita, mentre lui è fermo, immobile, senza gli strumenti necessari per andare avanti. Nessuno intorno a lui è in grado di fargli notare che la causa dei suoi insuccessi risiede nella sua stessa incapacità di darsi aiuto. Diventando un bersaglio facile a causa della sua fragilità, ecco che viene attenzionato da chi lo vede come una preda alla quale fare un lavaggio del cervello e strumentalizzarlo per i propri interessi: i neofascisti. Ma da qui in poi, vittima del sistema o meno, la scelta di compiere azioni immorali è assolutamente arbitraria.
Le sorelle registe Delphine e Muriel Coulin di questo soggetto hanno deciso di farne un film intitolandolo “Jouer Avec Le Feu”, in italiano “Noi e Loro”, e di presentarlo all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia lo scorso 4 settembre dove l’attore protagonista Vincent Lindon ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Ed è davvero un’ottima interpretazione. Lindon ti fa percepire, in maniera del tutto naturale, la sofferenza straziante di un padre devoto e innamorato dei suoi figli, che vede uno dei due rovinarsi senza avere la possibilità di fermarlo. Però per comprendere al meglio le scelte atroci del coprotagonista Fus secondo me si doveva scavare più a fondo nel suo malessere.
Non che esistano delle scusanti, ma la complessità dell’animo umano e ciò che lo spinge anche alle azioni peggiori, non è banalmente bianco o nero. Bisogna analizzare in modo chirurgico ogni aspetto irrazionale e ciò che lo genera per riuscire a capire e a superare il problema. Mentre “Noi e Loro” si concentra sul farci osservare il gap comunicativo che si crea fra un padre e un figlio. Comunque, nel complesso un buon film che ho apprezzato e che offre ottimi spunti di riflessione filosofica. Drammatico, cupo, doloroso. Tre virgola otto stelle su cinque.