Sembra l’inizio di una barzelletta, di quelle che si raccontano tra amici a fine serata: “C’era una volta un primo ministro israeliano, accusato di crimini di guerra, che decide di candidare il suo complice al Nobel per la pace.” E invece no, è cronaca. Benjamin Netanyahu, durante una sontuosa cena alla Casa Bianca, ha consegnato a Donald Trump una lettera ufficiale indirizzata al Comitato del Nobel: “Sta forgiando la pace mentre parliamo, un Paese e una regione dopo l’altra”.
C’è chi sostiene che la realtà abbia ormai superato la fantasia, ma qui siamo oltre: siamo in zona “Black Mirror”, episodio speciale “Premio Nobel Edition”. Netanyahu, mentre Gaza brucia e le bombe cadono, si presenta davanti al mondo come gran cerimoniere della pace. E chi candida? Proprio lui, Donald Trump, l’uomo che ha ordinato attacchi missilistici su siti nucleari iraniani e che, con la stessa disinvoltura con cui cambia pettinatura, promette tregue e lancia ultimatum.
Da Alfred Nobel a oggi, il premio per la pace ha visto di tutto: da leader rivoluzionari a presidenti in cerca di redenzione. Ma mai, forse, si era arrivati a tanto. Un premier sotto accusa internazionale che candida il suo complice, l’uomo che ha fatto della diplomazia uno sport da combattimento (vero, Zelensky?).
Netanyahu, con tono solenne, afferma: “Voglio esprimere apprezzamento e ammirazione da parte di Israele e del popolo ebraico nei confronti della sua leadership globale e per i suoi sforzi per garantire pace e sicurezza in molte regioni, in particolare in Medioriente”.
Pace e sicurezza. Due parole che, se pronunciate da chi ha appena ordinato l’ennesima offensiva militare o da chi ha firmato i cosiddetti “Accordi di Abramo” a suon di minacce e ricatti, suonano come una beffa, una presa in giro globale.
Trump, dal canto suo, accoglie la candidatura con la modestia che lo contraddistingue: “Se viene da lei in particolare, è molto significativo”. E aggiunge, con orgoglio, le recenti tregue che la sua amministrazione avrebbe mediato tra India e Pakistan, Congo e Ruanda, Israele e Iran.
Peccato che, nel frattempo, a Gaza si continui a morire, i colloqui di pace siano una farsa e la “migrazione volontaria” dei palestinesi sia solo l’ennesima trovata per mascherare una pulizia etnica.
La candidatura di Trump al Nobel per la pace, firmata Netanyahu, è il paradosso definitivo di questi tempi. È come se Al Capone avesse proposto Dillinger per il premio “Cittadino dell’anno”. La guerra a Gaza continua, i civili muoiono, i negoziati si arenano tra una bomba e l’altra, ma a Washington si brinda alla pace. Una pace che esiste solo nei comunicati stampa e nelle lettere ufficiali, mentre sul campo restano solo macerie e disperazione.
C’è da chiedersi se il Comitato del Nobel abbia già pronto il meme: Netanyahu che consegna la lettera a Trump, entrambi sorridenti, mentre sullo sfondo scorrono le immagini delle città distrutte. Forse è questo il futuro del premio: da riconoscimento per chi costruisce ponti, a gag per chi costruisce muri.