Il delitto di Garlasco, uno dei casi giudiziari più controversi degli ultimi decenni, torna ancora oggi sotto i riflettori per i tanti dubbi legati alle indagini scientifiche eseguite nel 2009.
In particolare, la genetista Marina Baldi, intervistata da Laura Placenti per Filorosso, ha analizzato criticamente la perizia che contribuì alla condanna di Alberto Stasi, sottolineando le varie “zone grigie” che ancora alimentano interrogativi e discussioni nell’opinione pubblica.
Baldi non usa mezzi termini: “Spesso ci sono zone grigie nelle perizie, ma in questa ce ne sono proprio tante”, afferma, facendo riferimento alla complessità e alle ambiguità tecniche che hanno influito sulla vicenda giudiziaria di Stasi.
Secondo la genetista, la lettura della perizia evidenzia come, all’epoca, non si fossero raggiunte “situazioni di tipo tecnico incontrovertibili”. Questo significa che gli elementi scientifici emersi non bastavano a fornire risposte certe e definitive, lasciando spazio a interpretazioni e, di conseguenza, a dubbi che ancora oggi rendono la storia difficile da chiudere in modo definitivo.
Uno degli aspetti più dibattuti della perizia riguarda il sangue rinvenuto sui pedali della bicicletta, sottoposto a test genetici. La giornalista ricorda come i risultati fossero “incerti”, chiedendo alla genetista di chiarire il motivo di tanta ambiguità.
“La quantità di sangue è irrisoria – risponde Baldi – quindi quel profilo è sì attribuibile a Chiara, ma a bassa concentrazione”. Il problema, spiega, è che in condizioni di scarsità di DNA diventa difficile persino rilevarne la presenza in modo certo.
L’interpretazione che vede il sangue sui pedali trasportato dalle scarpe, potenzialmente dall’assassino, innesca tutta una serie di ragionamenti che purtroppo rimangono nel campo delle ipotesi.
Baldi ribadisce un punto cruciale: la minima quantità di DNA rappresenta un limite tecnico importante nell’analisi forense. “Si può facilmente sbagliare”, ammette esplicitamente, confermando così la fragilità dell’accusa basata su dati scientifici non robusti. Questo punto riveste un’importanza centrale nella ricostruzione del caso, poiché evidenzia come le evidenze non fossero sufficienti per eliminare i margini di incertezza.
Un altro elemento della perizia riguarda il portasapone, oggetto che, secondo i consulenti, avrebbe potuto fornire una prova ulteriore se analizzato più approfonditamente. Baldi sottolinea come l’impronta di Alberto su quell’oggetto sia “decisamente poco significativa”, soprattutto perché il giovane frequentava regolarmente la casa di Chiara Poggi.
“È chiaro che essendoci il suo sangue e l’ipotesi che l’assassino possa essersi lavato le mani, questa impronta avrebbe un’importanza maggiore, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi”, afferma la genetista, ricordando così la difficoltà nel distinguere tra tracce quotidiane e tracce potenzialmente collegate al crimine.
Secondo la testimonianza della genetista, molte delle analisi scientifiche condotte nel 2009 non furono sufficientemente approfondite e, nel corso degli anni, la tecnologia è cambiata radicalmente.
“Sono cambiate molte cose – spiega Baldi – i test sono più sensibili, le regole sono più o meno le stesse, ma le migliorie sono nettamente significative”. L’avanzamento delle tecniche di indagine rappresenta dunque un elemento fondamentale per rimettere in discussione le conclusioni a cui si era giunti in passato.
Alla domanda se una perizia come quella del 2009 sarebbe considerata ancora valida oggi, Baldi risponde in modo pragmatico: “Per alcune cose sì, per altre no”.
Questa valutazione “a zone” conferma la necessità di esaminare in modo capillare ogni singolo dato, mettendo in comparazione i risultati vecchi e quelli nuovi ottenuti con le tecnologie attuali. L’obiettivo resta quello di ottenere informazioni più chiare e affidabili rispetto al passato.