Nell’aprile del 1981 fu pubblicato La Guerra dei Roses, il romanzo dello scrittore statunitense Warren Adler. Divenuto presto un bestseller, e successivamente tradotto in 25 lingue, otto anni dopo il celebre attore e regista Danny DeVito, al suo secondo lungometraggio, presentò al pubblico La Guerra dei Roses, omonimo adattamento cinematografico del libro di Adler. Michael Douglas, all’epoca quarantacinquenne, e Kathleen Turner, di dieci anni più giovane, interpretarono i protagonisti, i coniugi Oliver e Barbara Rose. La storia è ben nota quasi a tutti: superato l’iniziale colpo di fulmine, che aveva suggellato l’unione fra Barbara e Oliver, dopo aver detto sì dinnanzi all’altare, dopo aver concepito e cresciuto due figli, dopo aver visto la carriera da avvocato di lui spiccare il volo e dopo aver acquistato la villa dei sogni di lei, il rapporto aveva poi cominciato a incrinarsi, strizzando sempre più l’occhio a un celato astio, ormai impossibile da masticare a denti stretti. Ricordo che quando vidi il film per la prima volta era il 2003, avevo 13 anni e fra i dettagli disturbanti che mi rimasero impressi c’erano il finto paté di cane e la mano di Douglas nella scena finale.
La Guerra dei Roses fu e rimane tuttora un capolavoro che esplora, con spiccata maestria, l’odio che può generarsi fra due esseri umani, che un tempo si sono amati, mentre smarriscono lentamente l’umanità in un crescendo di rabbia e pazzia. Ci mostra dove e come nasce una crisi matrimoniale, fino a divenire folle ira e cieco disprezzo, dopo anni di dinamiche patriarcali di abuso, di maschilismo, di egoismo, di insoddisfazione personale e di risentimento troppo a lungo taciuto. Una pellicola magistrale, firmata da un DeVito brillante. E dunque era proprio necessario prendere un soggetto già così solido, riscriverlo e stravolgerlo per farne un remake ambientato nei giorni nostri? Se per me già era una cosa impensabile, dopo aver visto I Roses, l’undicesimo lungometraggio diretto dal cineasta Jay Roach, ho avuto l’assoluta certezza che sarebbe stato meglio evitare.
Stavolta ci troviamo in California e i Rose in questo caso si chiamano Theo e Ivy, entrambi britannici trapiantati negli Stati Uniti, lui architetto di grande fama e lei ex chef di talento. Anche qui, passato qualche anno dalla proverbiale scintilla romantica e dalla nascita dei loro figli, Hattie e Roy, le solide fondamenta di un matrimonio all’apparenza perfetto cominceranno a sfaldarsi, fino a far crollare del tutto la costruzione di un amore.
Il riadattamento, a cura dello sceneggiatore australiano Tony McNamara, inverte i ruoli rispetto alla storia originaria per avvicinarsi a temi odierni, come l’ambizione di carriera al femminile e il lasciare che sia il marito a prendersi cura delle faccende domestiche e dei figli. O anche l’invidia del successo e la competitività lavorativa che possono insorgere finanche fra marito e moglie, pur occupandosi di mestieri ben differenti. Ma se la coppia dei Rose di Douglas e della Turner rappresentava alla perfezione, se pur esasperando il concetto, il rancore buio e nero come il catrame che vien fuori fra due persone che hanno smesso di amarsi e che troppo a lungo, per abitudine e necessità, hanno continuato a sopportarsi, mordendosi la lingua, i nuovi Rose, interpretati da Olivia Colman e Benedict Cumberbatch, appaiono come adulti incapaci di porre un freno alla propria parte più infantile, comportandosi da poppanti capricciosi. McNamara, dopo la sceneggiatura trionfante di Povere Creature! (il secondo film scritto per Lanthimos), scivola rovinosamente in una sequela di cliché e luoghi comuni al pari di un soggetto creato per una webserie di Youtube. Dialoghi a tratti divertenti, ma pieni zeppi di termini attuali che personalmente fatico ancora a digerire. Sempre pazzesco il talento attoriale di Oliva Colman, che però al fianco di Cumberbatch risulta poco credibile all’interno della coppia. Per I Roses 2,8 stelle su 5.