Nel 2017 vivevo a Cagliari e non era di certo uno dei periodi migliori della mia vita. Così, per cercare di zittire quella sensazione angosciante di grave malessere che mi colpiva quasi a ogni sospiro, presi l’abitudine di guardare delle vecchie interviste del programma Storie Maledette presentato da Franca Leosini. Una dopo l’altra, voracemente divoravo quelle puntate come fossero ciliegie freschissime, appena raccolte. Fino alla nottata in cui arrivai all’episodio Quando Stefania ha il cuore di tenebra, che raccontava il delitto di Cirimido. 2014, la Leosini si apprestava a intervistare Stefania Albertani condannata nel 2011, a vent’anni di carcere più tre di ospedale psichiatrico, per aver rapito, narcotizzato, strangolato e poi dato fuoco alle spoglie di sua sorella Maria Rosa, nonché per aver tentato di uccidere i genitori, nel 2009.
Stefania, trentuno anni, ventisei all’epoca dei fatti, fu dichiarata durante il processo, mediante diverse perizie psichiatriche, parzialmente incapace d’intendere a causa di una malformazione del lobo frontale che le provocava amnesie e una patologica inabilità a gestire gli impulsi, soprattutto la rabbia. Capelli scuri raccolti in una coda di cavallo, volto ovale dal mento appuntito e gli occhi, incorniciati da una montatura da vista squadrata, risultavano quasi spenti, vuoti, privi di espressività. Un golfino blu scuro, una maglia color latte a girocollo dalle maniche lunghe e un paio di orecchini pendenti triangolari di un celeste acceso, con delle forme geometriche bianche e fucsia disegnate su. Ecco come si presentava alla telecamera la protagonista di uno dei casi di cronaca italiani più disturbanti. Atteggiamento serafico, calmo, dimesso e anche troppo collaborativo e compiacente nei riguardi della presentatrice. Linguaggio dalla teatralità eccessiva al punto da non riuscire a capire bene fin dove si trattasse di pentimento, nonostante la ritrovata ammissione totale di colpa, malgrado la pregressa perizia, e dov’è che iniziasse l’autocommiserazione. Due ore di conversazione fitta, ma insolitamente pacata, come si trattasse di una recita, a ripercorrere l’esistenza di Stefania e i dettagli dei crimini commessi solo cinque anni prima. Ricordo che ascoltare quella storia mi turbò così tanto da guastarmi il sonno per settimane, regalandomi degli incubi insostenibili. E da quel momento smisi di guardare Storie Maledette.
Passiamo ora a gennaio 2020, quando i criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali cominciarono a intervistare Stefania nella Casa Circondariale di San Vittore, al fine di raccogliere più materiale possibile per la successiva pubblicazione del libro Io volevo ucciderla - Per una criminologia dell’incontro. Pubblicato poi nel 2022, dopo undici colloqui durante i quali i due autori hanno accompagnato la detenuta nel lungo e travagliato percorso di coscienza e consapevolezza del suo vissuto, a partire dall’infanzia, per giungere alla comprensione dei reali motivi che l’hanno spinta a uccidere la sorella.
Ed è di questi scritti, e di conseguenza dalla storia della Albertani, che il cineasta italiano Leonardo di Costanzo ha deciso di farne un film intitolato Elisa. Sceneggiatura scritta dallo stesso regista, insieme ai colleghi Bruno Oliviero e Valia Santella, la pellicola è stata presentata in anteprima all’82ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia il 4 settembre scorso e distribuita nelle sale italiane a partire dal giorno successivo. L’attrice Barbara Ronchi interpreta la protagonista, che nella finzione si chiama Elisa e non Stefania, detenuta nel carcere sperimentale Moncaldo, in Svizzera. Intervistata da un criminologo di fama che sta svolgendo delle ricerche fra i carcerati per un progetto editoriale, Elisa avrà finalmente modo di affrontare e abbracciare le sue colpe in un cammino di guarigione.
A quattro anni di distanza da Ariaferma (2021), dove ci si concentrava soltanto sulle relazioni che nascono fra guardie e galeotti, obbligati a condividere gli spazi abitativi e quelli dell’anima, il regista ha deciso di nuovo di esplorare l’intricato universo che prende vita negli istituti penitenziari, ma stavolta guardando dritto in faccia i crimini, facendone una parte fondamentale della narrazione. In buona sostanza, nel quarto lungometraggio firmato da Di Costanzo, così come nel libro che ne ha ispirato la sceneggiatura, si sospende il giudizio e ci si concentra sull'ascolto per comprendere le ragioni, seppur imperdonabili, che hanno spinto qualcuno a commettere un delitto atroce e all’apparenza inspiegabile. Un viaggio all'interno della coscienza di chi delinque gravemente per scrutarne anche gli angoli più bui, ma come spettatore super partes. Buona la prova attoriale di tutto il cast. Ho trovato però superflua e un po’ troppo pretenziosa la scena del dialogo fra il criminologo Alaoui, interpretato da Roschdy Zem, e il personaggio marginale di Laura, con l’attrice Valeria Golino. 3,4 stelle su cinque.