Durante il convegno “L’implosione dell’Occidente”, organizzato dalla Commissione DuPre - Dubbio e Precauzione, Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati, ha offerto uno spaccato drammatico sulla crisi umanitaria che affligge la Striscia di Gaza. Le sue parole hanno colpito per l’intensità e la chiarezza, ma anche per il coraggio di connettere la realtà attuale con precedenti storici, richiamando la responsabilità della comunità internazionale nella lettura del conflitto israelo-palestinese.
Albanese ha aperto il suo intervento mettendo in rilievo la difficoltà non solo di assistere passivamente alle tragedie quotidiane, ma anche di comprendere cosa significhi essere testimoni delle sofferenze palestinesi: "La difficoltà di oggi, di leggere la Palestina oggi, non viene solo dal tormento di vedere la gente martoriata, massacrata, 20.000 bambini uccisi da trauma, cioè non si contano quelli morti di fame, non fanno parte di questo conto, quelli morti di fame, quelli spariti, quelli seppelliti sotto le macerie. E 60.000 persone."
Nelle sue parole risuona la denuncia dei numeri spaventosi provenienti da Gaza, dove la violenza non risparmia nessuno: bambini morti non solo direttamente per le conseguenze dei bombardamenti, ma anche per fame e crolli strutturali, rendendo il quadro ancora più grave.
Uno dei passaggi più forti del discorso di Albanese riguarda la totale sproporzione tra i civili e i combattenti tra le vittime del conflitto: “L’esercito israeliano ha... è stato trafugato un documento che riconosce che l’85% delle vittime a Gaza erano civili. E guardate che la definizione di non civile è molto più ampia di quella protetta dal diritto internazionale…”.
La relatrice Onu ha sottolineato come, persino nella terminologia giuridica più ampia, la maggior parte delle vittime non sia in alcun modo legittimo bersaglio della guerra secondo il diritto internazionale. Eppure, le sofferenze della popolazione continuano, senza il necessario intervento della comunità internazionale.
Albanese, nel suo intervento, ha denunciato non solo la mancata reazione politica, ma anche un clima culturale che tende sempre più a negare l’evidenza: “C’è anche la difficoltà di parlare ad un mondo che è terrapiattista. Per me la negazione del genocidio oggi equivale al terrapiattismo e non è nuova.”
Richiamando una conversazione vissuta presso la Libera Università di Berlino con un collega israeliano, Albanese ha affermato: “Il negazionismo, leggete la storia, il negazionismo del genocidio fa parte, il diniego del genocidio fa parte del genocidio stesso che si collega a un altro riflesso della disumanizzazione dell’altro.”
Secondo la giurista, la negazione attiva di atti genocidi non è mai cosa recente: “Quando si ammazzavano gli ebrei nella liberalissima e civilissima Europa 80, 90, 100 anni fa, non è che non si sapesse che cosa stesse succedendo... Era totalmente accettato, così come oggi è totalmente accettato che si ammazzino i palestinesi in nome della ragione superiore di Israele di sgominare Hamas.”
Il grido d’allarme di Albanese richiama tutti – governi, stampa, opinione pubblica – a riprendere una posizione attiva di difesa dei diritti umani, senza piegarsi a una narrazione dominante che normalizza il massacro dei palestinesi per presunte ragioni di sicurezza. La relatrice ONU richiama alla necessità di “un risveglio delle coscienze” , sottolineando che il genocidio non è solo una realtà descritta dai numeri, ma una responsabilità storica e morale che grava sulle spalle di chiunque contribuisca, anche con il silenzio, alla sua perpetuazione.