Il fotoreporter Niccolò Celesti ha lasciato la Global Sumud Flotilla mentre la nave era ancora in mare, una scelta che ha generato discussioni fra i partecipanti e raccolto attenzione mediatica.
Ha riferito di essere sbarcato dopo aver chiarito le proprie intenzioni con alcuni membri del comitato direttivo, in particolare con Thiago Ávila, e di essere tornato a terra senza drammi ma con la convinzione che la missione stesse cambiando pelle rispetto a quanto era stato promesso.
Celesti ha spiegato che non si è trattato di un gesto di sfiducia verso l’obiettivo umanitario, ma di una decisione presa per evitare tensioni interne e per non esporre volontari e civili a rischi che, a suo avviso, non erano stati valutati a fondo.
Ha detto anche di essere partito diretto verso Creta e di avere in programma di rientrare in Italia per proseguire altri impegni umanitari, mantenendo l’intenzione di sostenere Gaza con modalità condivise e più sicure.
Celesti viene descritto, secondo la biografia del suo sito, come un fotografo e fotoreporter che ha costruito la propria esperienza sul campo, dalla vita da assistente e l’apprendimento autodidatta fino agli studi al London College of Communication.
Ha lavorato per anni seguendo storie complesse — dal narcotraffico in Colombia allo sfruttamento della prostituzione, passando per indagini in Africa e reportage in Europa — e ha collaborato con testate e colleghi di primo piano.
Negli ultimi anni ha inserito il video nel suo repertorio e si è confrontato con progetti ardui, come il reportage sulla Sierra Leone prodotto da “Le Iene” e la copertura della guerra in Ucraina: il ritratto che emerge è quello di un professionista che alterna inchiesta e immagine per raccontare situazioni di grave criticità senza cedimenti retorici.
Celesti ha raccontato sul Corriere della Sera che la frattura è nata quando le “linee rosse” comunicate durante i training a Catania sono apparse meno nette durante la navigazione: quello che era stato promesso come un presidio in acque internazionali, volto a suscitare attenzione internazionale, si stava trasformando in un’azione che avrebbe potuto oltrepassare aree controllate da Israele.
Ha detto di aver provato a proporre soluzioni alternative — tra cui la consegna degli aiuti via Cipro fino al confine con Gaza, accompagnata da giornalisti e attivisti — ma che le sue proposte non hanno trovato seguito.
Ha spiegato di non nutrire paura fine a se stessa, bensì la volontà di non cercare il martirio senza una strategia concreta: l’avvertimento delle autorità italiane, esplicitato anche da dichiarazioni istituzionali, lo aveva convinto che il rischio per la vita poteva superare il beneficio operativo.
Le divergenze, ha detto, non erano sul fine — aiutare il popolo palestinese — ma sulle modalità e sulla valutazione del rischio.
Celesti ha sottolineato che azioni di forte impatto simbolico funzionano solo se accompagnate da pianificazione, protezione dei volontari e considerazione delle conseguenze per i civili: dall’imbarco e dallo sbarco degli aiuti potrebbe scaturire confusione e violenza, con esiti tragici.
Ha aggiunto che continuerà a sostenere iniziative umanitarie, ma solo quando le modalità saranno condivise e i rischi valutati collettivamente.