L’accordo per il cessate il fuoco a Gaza, annunciato dal presidente Donald Trump il 9 ottobre 2025, è stato salutato dai media internazionali come il più grande successo diplomatico del suo mandato recente, aprendo spiragli per una soluzione dopo anni di guerra, devastazione e decine di migliaia di vittime.
Tuttavia, se si analizzano in profondità i termini e le modalità con cui è stato raggiunto, emergono alcune zone d’ombra che chiamano in causa tanto la trasparenza quanto la reale equità di questa intesa.
La revisione segreta israeliana, la pressione militare sulle fazioni palestinesi e la governance post-bellica imposta dall’alto mettono in dubbio la genuinità di questo “storico” risultato.
Nel breve termine, la tregua offrirà una pausa ai civili e aprirà il corridoio degli aiuti; nel lungo periodo, però, il rischio è che la pace sia solo la premessa per nuovi squilibri e conflitti latenti, con la questione palestinese costretta ancora una volta a rimanere ostaggio degli interessi di potenze esterne.
Al centro dell’accordo, un piano articolato in 20 punti che include la fine degli attacchi armati, il rilascio simultaneo di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, il ritiro delle truppe israeliane dai territori concordati, la demilitarizzazione totale di Gaza e l’arrivo di un governo transitorio di tecnocrati palestinesi vigilato dalla comunità internazionale.
Gli Stati Uniti, sotto l’egida di Trump, avrebbero un ruolo primario come garanti, insieme a stati arabi come Qatar ed Egitto. Al primo sguardo, la proposta sembra quasi irriducibile: hostages verranno liberati “molto presto”, le forze israeliane si arretrano, ed entra in scena un flusso di aiuti umanitari.
Uno degli aspetti più controversi riguarda le modifiche sostanziali apportate da Israele al documento originario, su richiesta del premier Benjamin Netanyahu.
Secondo fonti diplomatiche, Netanyahu avrebbe “rivisto” il testo presentato alle nazioni arabe, alleggerendo o cancellando i punti che non garbavano a Tel Aviv e inserendo clausole più congeniali a Israele. Gli alleati arabi, all’inizio favorevoli al testo, si sono trovati di fronte a una versione completamente stravolta senza essere informati o consultati.
Questo “veto” israeliano, affiancato alla crescente pressione esercitata da Washington su Hamas per accettare il piano minacciando una “completa obliterazione” in caso di rifiuto, lascia intendere che il ciclo delle trattative abbia premiato gli interessi israeliani più di quelli palestinesi.
La posizione di Hamas, costretta a cedere il controllo amministrativo della Striscia senza alcuna garanzia reale di rappresentanza politica, risulta debole e subalterna alle condizioni del piano.
Altro nodo cruciale sono i meccanismi di governabilità post-bellica previsti dall’accordo. La transizione sarebbe gestita da tecnocrati palestinesi sotto stretta sorveglianza internazionale, escludendo di fatto qualsiasi reale rappresentanza popolare della Striscia e legando ogni decisione alle agende di attori esterni, inclusi Stati Uniti e Israele.
Una governance imposta dall’alto rischia di non rispondere alle esigenze di autodeterminazione dei palestinesi e di perpetuare una sorta di colonialismo amministrativo.
Se da una parte il piano di Trump pone fine formalmente ai bombardamenti—acclamato come svolta epocale da leader mondiali e media statunitensi—dall’altra “salva” Israele dalla condanna dello sterminio e dal rischio isolamento internazionale, consacrando Tel Aviv come vincitrice diplomatica e morale del conflitto.
La minaccia di mutilazione totale di Hamas in caso di non cooperazione rivela la fragilità dell’accordo e l’asimmetria dei rapporti di forza in campo.
I governi di Qatar, Egitto e Turchia, che hanno mediato l’intesa, non sembrano avere voce in capitolo sulle revisioni israeliane, e le ONG denunciano la possibilità che la tregua si trasformi in una “pace armata” a vantaggio di chi, finora, ha riempito di bombe e detriti la Striscia di Gaza.