Chi scrive assume una tesi forte: esiste un arco di eventi — Calciopoli nel 2006 e le successive inchieste sulle plusvalenze — che, messi insieme, possono essere letti come un piano sistematico per demolire la Juventus nelle sue incarnazioni vincenti di due epoche.
Questa è un’accusa gravissima: non la lancio come fatto incontrovertibile, ma come conclusione logica costruita su sentenze, provvedimenti e trattamenti procedurali differenti.
A chi legge la scelta: giudicare se sia una cieca polemica o un’analisi dolorosamente coerente.
Calciopoli non fu solo uno scandalo: fu una cesura storica. La Juventus fu retrocessa, i dirigenti principali ricevettero inibizioni pesanti e alcuni scudetti furono revocati o non assegnati.
Il risultato pratico: cancellazione amministrativa di successi sportivi conseguiti sul campo e delegittimazione pubblica della società.
Per quanti motivi la giustizia sportiva abbia agito (intercettazioni, responsabilità dirigenziali, esigenze di sanzione deterrente), il fatto politico è che quel trattamento cambiò per sempre la narrativa e la possibilità competitiva della Juve.
Chi ha vissuto quegli anni ricorda una volontà di esemplarità che, per alcuni, si trasformò in volontà di annientamento simbolico.
A distanza di anni è arrivata l’inchiesta sulle plusvalenze (Prisma) che ha colpito la Juventus in profondità: deferimenti, processi, patteggiamenti o sentenze che hanno coinvolto ex dirigenti e hanno creato un vulnus reputazionale e patrimoniale.
I riflessi sono concreti: dirigenti inibiti, richieste di risarcimento, condanne o accordi penali che spostano l’asse della battaglia dal campo ai bilanci.
Per molti tifosi e osservatori la sequenza è chiara: prima si toglie la storia (scudetti), poi si mina la capacità economica e la governance.
Una delle leve argomentative più potenti per chi sostiene la tesi dell’«annientamento pilotato» è la percezione di disparità.
Durante Calciopoli, l’Inter — pur comparendo in molte intercettazioni (protagonista di esse fu il presidente Giacinto Facchetti e non un dirigente qualunque) poi emerse negli anni successivi — non solo non venne sanzionata, ma beneficiò indirettamente delle decisioni che colpirono la Juventus, ereditando uno scudetto a tavolino e aprendo un ciclo vincente sul piano sportivo e mediatico.
L’impressione fu che, mentre una società veniva smantellata, un’altra potesse capitalizzare sul vuoto lasciato, con l’appoggio o l’indifferenza del “sistema”.
A distanza di anni, nel caso plusvalenze, la scena sembra ripetersi in modo diverso ma con analoghi esiti: la Juventus subisce deferimenti, inibizioni e penalizzazioni, mentre il Napoli, pur menzionato in ricostruzioni giudiziarie relative a operazioni di mercato (come il caso Osimhen-Manolas), non ha visto la stessa severità da parte della Procura federale.
Le carte sono state esaminate, ma il procedimento non è stato riaperto.
Due epoche, due club differenti, un’unica sensazione: che la Juventus sia l’unica destinataria del pugno di ferro.
Se si accetta almeno l’ipotesi che non tutto sia casuale, ecco le spiegazioni che rendono plausibile la tesi:
Sono spiegazioni che non dimostrano “il complotto” in senso stretto, ma descrivono come istituzioni, tempi processuali e comunicazione possano combinarsi per produrre effetti devastanti.
Affermazione definitiva? No. Ma i fatti pubblici — revoche e retrocessioni nel 2006, poi anni dopo un’inchiesta sulle plusvalenze che ha colpito la Juve in modo sistemico, mentre altri club in casi analoghi hanno avuto trattamenti diversi — costruiscono un quadro che vale la pena chiamare in modo netto: molti guardano a un disegno che ha voluto ridimensionare e delegittimare la Juventus nelle sue due grandi stagioni vincenti.
Se non è stato «annientamento» pianificato, è comunque un effetto sistemico della giustizia sportiva, della comunicazione e delle strategie investigative che ha portato a un risultato molto simile.