Se c’è una cosa che i governi occidentali sembrano voler evitare con ogni mezzo è uno scontro diretto con Israele.
Anche quando l’evidenza dei fatti — dai bombardamenti su Gaza agli attacchi alle missioni umanitarie — renderebbe legittime domande scomode, la reazione ufficiale resta cauta, sfumata, o semplicemente assente.
Non è solo una questione di geopolitica o di alleanze storiche. È anche — e forse soprattutto — una questione di infrastrutture digitali.
Negli ultimi vent’anni Israele è diventato la cassaforte informatica dell’Occidente: nei suoi software si archiviano e si proteggono informazioni sensibili di governi, ministeri, polizie e servizi europei.
Una “scatola nera” tecnologica che pochi conoscono, ma da cui dipendono in molti.
Israele ha costruito un ecosistema tecnologico-militare unico al mondo, nato dall’intreccio tra università, esercito e intelligence.
Dalle unità d’élite del Mossad e dell’esercito — in particolare la famigerata 8200 — provengono molti dei fondatori e dirigenti di startup e colossi hi-tech che forniscono ai governi occidentali strumenti di sorveglianza, intercettazione, profilazione e difesa dei dati.
Software capaci di trasformare un telefono in un microfono permanente, o di penetrare sistemi cifrati, hanno mostrato quanto fragile possa essere la privacy anche nei Paesi democratici.
Dopo gli scandali internazionali, il problema non è scomparso: è semplicemente diventato più invisibile.
Anche l’Italia è parte di questa trama. Alcune procure, reparti speciali e strutture dei servizi utilizzano piattaforme israeliane per la gestione di dati d’indagine, intercettazioni, riconoscimenti biometrici e analisi forensi.
I contratti, coperti da clausole di riservatezza, rendono difficile capire quanto profonda sia la dipendenza. Ma il flusso tecnologico è unidirezionale: da Tel Aviv a Roma, Berlino, Parigi, Madrid.
«Chi possiede le chiavi dei software ha il potere di monitorare ciò che accade. Anche nei governi alleati», racconta un esperto di intelligence.
«La forza di Israele oggi non è solo militare: è digitale. E nessuno vuole mettersi contro chi può, tecnicamente, accedere a tutto».
L’espansione dell’industria tech israeliana nel settore della sicurezza non è un effetto collaterale, ma il risultato di una strategia statale pianificata: diventare indispensabili.
Accordi industriali, cooperazioni tra servizi e partecipazioni incrociate tra fondi pubblici e aziende private consolidano una dipendenza strutturale.
Così, anche chi vorrebbe criticare Israele si ferma un passo prima. Non solo per timore diplomatico o per il peso delle lobby filo-israeliane, ma per una sorta di autodifesa sistemica. Toccare Israele significa, per molti governi, rischiare di toccare la propria sicurezza digitale.
La guerra di Gaza e la crisi umanitaria hanno riaperto il dibattito morale e politico, ma dietro le dichiarazioni di solidarietà o di prudenza diplomatica si nasconde una verità più scomoda: l’Occidente è ostaggio tecnologico di un alleato potente e sempre meno prevedibile.
Per ora, nessuno sembra avere la forza — né l’interesse — di spezzare questo legame. Ma la domanda, in più di una cancelleria, comincia a serpeggiare: chi controlla davvero la nostra sicurezza? E fino a che punto siamo ancora padroni della nostra sovranità digitale?
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.
I campi obbligatori sono contrassegnati con *