Ogni volta che sento pronunciare il nome di Michela Murgia mi si inumidiscono gli occhi all’istante e mi si riempie il petto d’orgoglio. È strano, benché non la conoscessi di persona, da quando è deceduta, pensare a lei anche solo per un momento mi fa sentire ferita come se venissi trafitta al cuore da una lama affilata. Da donna di sinistra e femminista, la morte di Michela l’ho vissuta come un fatto personale, che tutt’oggi mi fa sentire offesa e adirata nei confronti della vita, troppo spesso ingiusta.
Michela Murgia, nata a Cabras nel ’72, col suo carattere forte da sarda caparbia, oltre che una bravissima scrittrice e una splendida pensatrice, è stata fino all’ultimo una donna che ha lottato strenuamente per le donne, per il progresso, per l’uguaglianza, per far sì che ognuna di noi magari un giorno possa sentirsi davvero libera di esistere in una civiltà giusta. Un’altra cosa che mi commuove moltissimo è sentire Roberto Saviano parlare di lei e del loro rapporto d’amicizia che è stato umanamente profondo e culturalmente di spessore, a dimostrazione che un uomo e una donna possono amarsi moltissimo senza provare l’urgenza fisica di sfiorarsi le carni a vicenda con avidità.
Ebbene, tornando a parlare soltanto di Michela, il 6 maggio del 2023, durante un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, rese pubblico il fatto che, a causa di un tumore ai reni al quarto stadio, le restava pochissimo tempo da vivere. Sempre a maggio di quell’anno ha poi pubblicato il suo ultimo libro, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, edito da Mondadori, appena due mesi e mezzo prima di morire. Difatti, Michela si è poi spenta il 10 agosto del 2023. Il romanzo è formato da una serie di racconti, tutti collegati fra loro, che riflettono sulla trasformazione che avviene nel periodo che intercorre tra l’accettazione di un fatto doloroso, la morte e la successiva rinascita di chi rimane in vita. La regista spagnola Isabel Coixet, prendendo ispirazione da questo libro, ha deciso di farne un film omonimo, di cui ha coscritto la sceneggiatura insieme ad Enrico Audenino.
Marta (Alba Rohrwacher) è un’ex ginnasta che insegna educazione fisica in un liceo di Roma. Ha un carattere chiuso, introverso, ma al contempo un po’ eccentrico. Spesso tende a esprimere i pensieri, le opinioni e i giudizi personali in modo diretto, anche troppo: è come se le parole le scivolassero via dalla bocca, veloci come un torrente in un giorno di piena. Non ama molto stare in mezzo agli altri e ha da sempre un complicato rapporto con l’alimentazione, mai del tutto risolto. L’unico che è riuscito a farle apprezzare davvero il cibo è stato il suo compagno Antonio (Elio Germano), che lavora come cuoco in un ristorante della capitale. La loro relazione è nata con rapida naturalezza dopo un incontro casuale fra i tavolini di una pizzeria al taglio. Da subito si sono presi e amati, nutrendosi l’uno dell’altra con la stessa voracità di un verme che divora un frutto maturo. Però, dopo tanto tempo, quello stesso legame che sembrava essere stretto a doppio nodo per Antonio è giunto a un punto di rottura invalicabile. Marta, abbandonata all’improvviso, scoprirà di soffrire di un brutto male. Ma grazie alla malattia affronterà un periodo di cura e rinascita personale che le darà modo di scoprire se stessa e i suoi reali gusti e confini.
Girata fra Trastevere e Testaccio, due quartieri storici di Roma, a partire da marzo 2025, la pellicola è poi stata presentata in anteprima a settembre al Toronto International Film Festival. A differenza del romanzo, che approfondisce di più la storia di ogni personaggio coinvolto, la protagonista centrale del film è Marta intorno alla quale gravitano gli altri ruoli, proprio come all’interno del sistema sorale. Lei è il sole che illumina tutto il resto, mentre un tumore nel suo stomaco si sta diffondendo ovunque, come una goccia d’inchiostro su un pezzo di carta.
Guardando il trailer si è tratti in inganno, perché ti fa pensare che questa sia una storia che si focalizza sulla fine di un amore e sul dolore dilaniante dell’abbandono. E invece no, il film parla a viso aperto di quel che può accadere quando tenti di rimetterti in piedi a un passo dalla fine. Ti mostra quel processo complicato che affronta la mente umana dinnanzi a una sentenza di morte certa, passando attraverso il meccanismo della mediazione. Il tentativo disperato di zittire la paura svolgendo dei compiti, come a voler patteggiare con la vita.
Sarò diretta: Tre ciotole è un lungometraggio imperfetto, pieno di sbavature e di piccoli errori, proprio come l’esistenza di Marta. Una delle cose che ho meno apprezzato è la presenza nel cast di Elio Germano, che purtroppo non sono mai riuscita a reputare un attore di talento. Eppure ho pianto così tanto che a un certo punto non riuscivo più a respirare. Seduta su un sedile troppo stretto, schiacciata in mezzo a due sconosciuti, ho trattenuto i singhiozzi per non fare rumore mentre dagli occhi mi scivolavano, pesanti come una colata di vernice, delle lacrime dense. Confesso che non piangevo così forte da quasi due anni.
In un certo qual modo mi ha ricordato i romanzi di Banana Yoshimoto, che personalmente amo alla follia. Tre ciotole è un film che attraverso la sofferenza cruda ti conduce per mano verso la rinascita, come quando trattieni il respiro sott’acqua troppo a lungo e tenti di risalire a galla spingendo più forte che puoi. Senza voto.