Il paesaggio digitale odierno ha generato una nuova e inquietante forma di intrattenimento: il bambino come generatore di contenuto. Non parliamo più solo di giovani attori o musicisti che entrano nel mondo dello spettacolo per un talento specifico, ma di bambini la cui intera quotidianità – il pianto, il gioco, i capricci, i momenti più intimi e vulnerabili – viene monetizzata attraverso visualizzazioni e partnership commerciali.
Questo fenomeno, spinto dal cosiddetto "sharenting" estremo, pone un dilemma etico fondamentale: a chi appartiene la vita di un bambino? La necessità dei genitori di alimentare la macchina dei contenuti per mantenere un flusso di entrate spesso eclissa il diritto primario del minore alla riservatezza e a una crescita serena, lontana dalle aspettative e dai giudizi di milioni di sconosciuti. È una forma di lavoro minorile non regolamentata, dove il "set" è la loro stessa casa e il "copione" è la loro esistenza.
Il prezzo che questi giovani pagano è spesso invisibile, ma profondo. Crescere sotto i riflettori digitali deforma la percezione di sé in modi complessi e duraturi.
Per un bambino che diventa famoso online, la linea tra la persona reale e il personaggio digitale si assottiglia pericolosamente. Il successo dipende spesso dalla capacità di replicare comportamenti o situazioni che l'algoritmo premia. Questo li costringe a vivere in uno stato di costante performance dove l'autenticità viene sacrificata in nome dell'engagement.
Come può un adolescente sviluppare un solido senso di sé quando l'unica identità che il mondo esterno riconosce è quella che i suoi genitori (o un'agenzia) hanno costruito per la telecamera? La pressione di essere "sempre allegro", "sempre perfetto" per il pubblico è una gabbia emotiva che può sfociare in gravi problemi di autostima, ansia sociale e, nei casi più estremi, al burnout precoce.
Il danno non si limita ai loro followers. Il materiale generato dai minori famosi alimenta un ecosistema predatorio. Immagini innocue possono essere estratte dai video e inserite in contesti inappropriati o, peggio ancora, cadere nella spirale della pedopornografia online attraverso manipolazioni digitali (deepfake) o la semplice ripubblicazione da parte di individui malintenzionati. I genitori, pur mossi da affetto, diventano involontari fornitori di materiale sensibile per un pubblico che non hanno il potere di controllare.
Il problema più pressante è il ritardo della legislazione. Le leggi sulla tutela del minore e sul lavoro minorile sono state concepite per il teatro, il cinema o le fiction televisive, settori dove le ore di lavoro, la scuola e la destinazione dei guadagni sono rigidamente controllate.
Nel mondo dei vlogging e dei social media, queste tutele sono quasi inesistenti. I bambini lavorano non per ore specifiche, ma per un tempo indefinito di "presenza" e di "disponibilità" emotiva. Il Diritto all'Oblio Negato: In Francia, per esempio, si sta cercando di introdurre norme per regolamentare la pubblicazione dei contenuti dei minori di 16 anni, permettendo al bambino di richiedere la rimozione dei video una volta raggiunta la maggiore età. In Italia e in molti altri Paesi, il cammino è ancora lungo.
La Questione Economica:Chi garantisce che il denaro guadagnato dal minore venga effettivamente investito nel suo futuro? Spesso, i fondi vengono gestiti interamente dai genitori per sostenere l'attività familiare, lasciando il minore, una volta adulto, senza risparmi significativi e, potenzialmente, senza un'istruzione completa o un piano B.
La fama digitale precoce non è un gioco innocuo. È un'esposizione massiva che può compromettere per sempre il diritto di un giovane a crescere in privato, a commettere errori lontano dagli occhi di tutti e a formare la propria identità senza la pressione di un pubblico pagante. È essenziale che la società, i legislatori e, soprattutto, i genitori capiscano che l'infanzia non è un marchio da commercializzare. Il diritto a essere un bambino deve sempre avere la precedenza sul trend del momento o sul potenziale di guadagno di un algoritmo.
Le riflessioni sull'etica dell'esposizione non sono teoriche, ma affondano le radici in storie e casi reali che hanno scosso l'opinione pubblica e la giustizia. Il cinema si è spesso chinato su questa inquietante dinamica. Si pensi a pellicole come "Bad Influence: The Evils of Kidfluencing" (disponibile su piattaforme streaming) o ad altri documentari che hanno raccolto le testimonianze agghiaccianti di adolescenti che, crescendo, hanno scoperto con orrore l'archivio digitale della loro infanzia, creato non da loro, ma dai loro genitori.
Queste narrazioni mettono in luce gli abusi e lo sfruttamento non solo economico, ma anche emotivo, a cui sono stati sottoposti i giovani creatori di contenuti. Il caso di Ruby Franke negli Stati Uniti, la mamma Youtuber del canale "8 Passenger", è un esempio drammatico delle estreme conseguenze dello sharenting spinto all'eccesso. Il suo caso, culminato con l'accusa di abusi sui figli, ha acceso un faro globale su come la ricerca ossessiva di contenuti e la "messa in scena" di una vita familiare perfetta possano mascherare realtà ben più oscure. Sebbene non tutti gli sharenter siano abusivi, il caso evidenzia la pericolosa erosione del confine tra vita pubblica e protezione del minore quando l'obiettivo è il guadagno. Un altro esempio illuminante viene dall'Europa, dove una ragazza austriaca ha intentato una causa contro i suoi stessi genitori per aver pubblicato senza il suo consenso centinaia di foto imbarazzanti e intime della sua infanzia.
Questo, e le crescenti decisioni di Tribunali italiani (come quello di Mantova) che hanno imposto multe salate ai genitori che pubblicavano foto dei figli senza l'accordo dell'altro coniuge o in violazione dell'articolo 10 del Codice Civile, dimostra che il diritto all'autodeterminazione digitale e alla privacy del minore è un principio che la legge sta finalmente riconoscendo e tutelando. Questi casi non sono eccezioni, ma segnali d'allarme. Essi ci ricordano che il vero valore di un'infanzia non risiede nei like o nelle entrate pubblicitarie, ma nella libertà di crescere, di sbagliare e di formare la propria personalità lontano dai riflettori.
La responsabilità ricade su tutti: Sulle Piattaforme, che devono dotarsi di algoritmi etici e strumenti di segnalazione più efficaci. Sui Legislatori, che devono colmare il vuoto normativo equiparando il "lavoro di influencer" al lavoro minorile tradizionale. E sui Genitori, che devono anteporre il volto nascosto e la serenità del figlio/a al volto esposto e al potenziale successo economico. Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di riaffermare un principio sacro: l'infanzia non è merce. Ogni bambino ha il diritto inalienabile di scrivere la propria storia, di scegliere cosa condividere e, soprattutto, di avere un futuro digitale che sia suo, e non di qualcun altro.
A Cura Di Chiara Ena
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