La privacy è una necessità sempre più avvertita nella società contemporanea. Una necessità intercettata anche dalle criptovalute, che proprio della riservatezza fanno uno dei loro maggiori punti di forza.
A volte, però, questa necessità va a coprire scopi che esulano dalla semplice voglia di non far trapelare all'esterno i dettagli della propria attività di carattere finanziario. Se, infatti, il Bitcoin contempla notevoli livelli di riservatezza, ma non garantisce l'anonimato, anzi, c'è una particolare categoria di criptovalute che si prefigge di alzarli in maniera esponenziale, sino a conseguire in maniera pressoché totale il secondo.
Stiamo parlando delle cosiddette privacy coin, ovvero quelle valute virtuali che sono da più parti accusate di fare da propellente all'economia criminale di stanza sul Dark Web, ovvero la parte più nascosta della rete. Un mondo in cui si aggirano praticamente indisturbati i trafficanti di stupefacenti, armi ed esseri umani, oltre alle bande criminali intenzionate a non farsi rintracciare dalle forze di polizia.
Con l'etichetta di privacy coin si indicano le valute digitali che si propongono di conseguire il massimo possibile in termini di riservatezza ai propri utenti. Un obiettivo destinato naturalmente a irritare le istituzioni e le loro diramazioni finanziarie. Il motivo di questo fastidio è in effetti del tutto comprensibile: l'evasione fiscale continua a sottrarre ingenti risorse di cui molti governi avrebbero grande bisogno per sostenere le proprie politiche sociali.
Un fastidio, quello del mondo istituzionale, esplicitato dai continui richiami da parte di esponenti politici alla necessità di contrastare le criptovalute. Richiami i quali, però, sbagliano molto spesso il bersaglio, indicandolo nel Bitcoin. Come ha fatto ad esempio Davide Serra, il fondatore di Algebris, quando ha indicato in BTC una vera e propria lavanderia di soldi sporchi.
Un ruolo che, invece, spetterebbe di diritto alle privacy coin. Queste monete virtuali, infatti, utilizzano algoritmi tesi proprio a incrementare al massimo la riservatezza delle transazioni, nascondendo in pratica coloro che le effettuano. Andiamo a vedere come riescono a farlo.
Come abbiamo già ricordato, ad esaltare la tensione alla riservatezza delle privacy coin sono i protocolli da esse utilizzati. In particolare, tra gli stessi ne spiccano due:
Se Litecoin e Zcash sono riusciti a farsi notare per le prestazioni conseguite in termini di riservatezza, la privacy coin più famosa è però Monero. Lanciata nel corso del 2009, XMR si è subito fatta notare per il protocollo utilizzato, ovvero Cryptonode.
A renderlo così temuto è il suo funzionamento, effettivamente molto diverso da quello che caratterizza gli algoritmi tradizionali. Cryptonode, infatti, lascia pubblica la contabilità, ovvero il quantitativo di moneta virtuale contenuta all'interno di un portafogli elettronico, ma al tempo stesso rende impossibile capire quali dati contengano effettivamente i blocchi della catena. Ne consegue l'impossibilità di tracciare i soldi che vengono utilizzati nel corso di una transazione.
Proprio il venir meno della tracciabilità, come è noto, rappresenta un vero e proprio incubo per le agenzie fiscali di ogni parte del mondo, se si fa eccezione per i paradisi fiscali. Monero, di conseguenza, si è tramutato in uno spauracchio, da abbattere ad ogni costo. Ci ha provato in particolare l’Internal Revenue Services (IRS) degli Stati Uniti, giunta a prospettare il rilascio di una ricompensa pari a 625mila dollari a favore di chi si riveli in grado di spazzare via Cryptonode.
Al momento, però, tali tentativi sono stati frustrati, tanto da rendere Monero la privacy coin più utilizzata non solo nel Dark Web, ma anche per il ransomware. Tanto da spingere più di un politico a chiederne l'immediata messa al bando.