Lo straining, un termine meno conosciuto rispetto al mobbing ma di grande rilevanza nel contesto lavorativo, si riferisce a situazioni in cui un lavoratore viene sottoposto a pressioni o trattamenti ingiusti sul posto di lavoro. Questo fenomeno può includere il demansionamento o l'isolamento professionale, creando un ambiente lavorativo stressante e dannoso.
Il concetto di straining è stato introdotto dal dottor Harald Ege, un esperto in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. Derivato dal verbo inglese "to strain" che significa "mettere sotto pressione", lo straining descrive situazioni lavorative in cui un dipendente è sottoposto a stress prolungato a causa di trattamenti iniqui e discriminatori.
Sebbene spesso confuso con il mobbing, lo straining si distingue per la sua natura meno sistematica e prolungata. Mentre il mobbing implica un'ostilità reiterata e una persecuzione, lo straining può derivare anche da un singolo episodio o da azioni isolate, purché queste abbiano un impatto negativo duraturo sul benessere del lavoratore.
Secondo il modello proposto da Ege, ci sono sette parametri chiave per identificare uno scenario di straining:
La legislazione italiana, riconoscendo l'importanza della salute psicofisica dei lavoratori, ha introdotto tutele giuridiche anche per fenomeni come lo straining. Queste misure legali sono volte a sanzionare comportamenti lesivi, anche se meno gravi rispetto al mobbing, ma che comunque violano i diritti dei lavoratori.
Il riconoscimento dello straining da parte della giurisprudenza è fondamentale per fornire un risarcimento adeguato ai lavoratori vittime di tali comportamenti. La prima sentenza giurisprudenziale che ha riconosciuto lo straining come causa di risarcimento risale al 2005, in un caso di demansionamento.
Il riconoscimento giurisprudenziale dello straining in Italia ha inizio con la sentenza n. 286/2005 del Tribunale del Lavoro di Bergamo, che ha riconosciuto il diritto al risarcimento per comportamenti ostili isolati e non continui. Successivamente, altre pronunce hanno riaffermato e precisato la natura dello straining, delineando le condotte che rientrano in tale fenomeno e stabilendo che anche azioni non prolungate nel tempo possono giustificare una pretesa risarcitoria.
Per i lavoratori che sperimentano lo straining, dimostrare la situazione subita può comunque essere complicato. Tuttavia, grazie all'evoluzione della giurisprudenza e ai precedenti delle sentenze, è diventato più fattibile ottenere un risarcimento per danni derivanti da tali comportamenti nocivi.
I lavoratori che ritengono di essere vittime di straining possono quindi intraprendere azioni legali per tutelare i propri diritti. È importante che raccolgano prove concrete delle azioni subite e dell'impatto che queste hanno avuto sulla loro salute psicofisica.
Leggi anche: Quali sono gli effetti del mobbing sulla salute e come superarli
Per contestare lo straining, si fa riferimento agli articoli 2087 e 2103 del Codice Civile italiano. Mentre il primo articolo si concentra sulla tutela delle condizioni di lavoro, il secondo riguarda le prestazioni lavorative. Le norme si focalizzano sulla protezione della personalità morale del lavoratore, salvaguardando i suoi diritti fondamentali.
In particolare, secondo l'articolo 2087 del Codice Civile, i datori di lavoro sono tenuti a garantire condizioni di lavoro che tutelino l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. La violazione di questo obbligo può condurre a responsabilità contrattuale e al risarcimento del danno.
Il demansionamento si verifica quando un lavoratore viene assegnato a mansioni inferiori rispetto alle sue competenze e esperienza. Ciò può provocare uno stato di stress e disagio psicologico significativo, rientrando così nella categoria dello straining.
In situazioni di demansionamento illegittimo, il lavoratore può richiedere un risarcimento per i danni subiti. Questo include danni patrimoniali (come le spese per lo psicologo) e non patrimoniali (come il pregiudizio all'integrità psico-fisica e alla dignità personale).