Negli ultimi cento anni, le donne hanno fatto tremare le fondamenta di un sistema che le incatenava a ruoli sociali, economici e lavorativi preconfezionati, conquistando vittorie che hanno mandato in tilt una fetta non trascurabile di uomini. Questi, vedendo sgretolarsi il terreno sotto i loro piedi, hanno deciso di contrattaccare, cercando di smantellare a loro volta i cliché di genere che li imprigionavano.
La morte di Sara Campanella, 30enne uccisa a coltellate nel Salernitano, e quella di Ilaria Sula, assassinata a colpi di pistola dal suo ex compagno a Roma, hanno riportato alla luce il fenomeno inquietante dei commenti online carichi di odio, disprezzo e giustificazioni.
È il patriarcato 2.0, quello digitale, quello che si sente incompreso, svilito dalla narrazione "woke", ma che trova sempre una tastiera per sfogarsi. In questo scenario, i social network diventano fogne a cielo aperto dove il dolore delle vittime è svilito e insultato, i familiari offesi, e i carnefici compresi.
D'altronde a tutti capita nella vita di sbagliarsi, di fare "errori", no...? Perché non tutti gli uomini uccidono, certo, ma troppi di loro si allineano e diligentemente ci spiegano perché, in fondo, è successo.
Il patriarcato in rete adotta uno spartito ben preciso: la donna è una proprietà privata, un oggetto, e l'uomo ha il diritto - o il dovere - di reagire con la violenza se questo oggetto gli sfugge di mano. Non si tratta solo di maleducazione: è cultura. Una cultura tossica e trasversale, che sopravvive e si rigenera nei gruppi chiusi (specie quelli su Telegram), nei commenti ai post, nei meme condivisi.
Uomini così, non li vorrei neanche come zerbino. Sono solo escrementi.#femminicidio #femminicidi#IlariaSula #SaraCampanella pic.twitter.com/72UyohWk3r
— Sansia (@sansia1927) April 4, 2025
Secondo l'Istat, il 60% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito almeno una forma di violenza fisica, psicologica o sessuale nell'arco della propria vita. Per molti uomini, però, questa realtà non esiste: ne fabbricano una a loro uso e consumo, esiste solo una narrazione che li vede vittime perenni di un sistema che protegge troppo le donne e punisce severamente gli uomini.
#manipoleida OMIcidio reca in sé il prefisso omos-, dal greco 'simile' terminazione del simile, dell'appartenente al consesso del genere umano. Inventarsi 'femminicidio', oltre a sminuire la portata degli altri omicidi, allontana le femmine dal consesso del genere umano.
— Paolo Laitempergher Giardiniere Uno dei 300 (@publiedCloud) April 8, 2025
Il guaio vero è che questi gruppi possono sollevare questioni reali - disparità socio-economiche e salute mentale - ma poi si perdono in un vicolo cieco. È un ribaltamento cinico della realtà e il web ne è l'amplificatore e il rifugio.
Ma non è solo colpa dell'algoritmo: è anche colpa nostra, di un paese che non ha mai voluto fare i conti con il maschilismo strutturale, con l'idea che la virilità si misuri in possesso, sopraffazione e controllo. Un paese in cui la parola "femminicidio" viene ancora sminuita e derisa, dove un ministro della Giustizia la collega alla mancanza di cultura di certe etnie, dove a parlare di donne sono spesso solo uomini che non ne hanno mai vissuto le problematiche.
Un paese, insomma, che ancora non educa una parte della sua popolazione (autoctona o no) al rispetto, all'empatia e alla gestione delle emozioni. E che permette che l'odio diventi rabbia, e la rabbia violenza: non soltanto su una tastiera, ma anche nel mondo reale e concreto.
Online, il caos regna sovrano. Il contesto si perde nei meandri della rete, travolto da reazioni viscerali che annunciano e amplificano disastri. Informazioni private finiscono alla mercé di tutti, per ingenuità o per mano di hacker e truffatori. E chi subisce attacchi coordinati? Vede i propri scheletri digitali - diffamatori o imbarazzanti - rimbalzare all'infinito tra condivisioni, indicizzazioni e remix selvaggi, senza alcun controllo.
È un furto d'identità digitale che annienta il consenso, lasciando le vittime nude, non solo fisicamente ma anche nel loro io virtuale. Chi gioca con queste identità, spesso non lo fa con uno scopo ben preciso: a volte è solo un passatempo crudele. E i commenti? Un fiume di veleno, insulti, volgarità, spesso contro chi è già fragile - donne, migranti, chiunque osi sfidare gli stereotipi.
Questa solo una piccola parte degli orribili commenti di utenti su #SaraCampanella vittima dell'ennesimo uomo che non ha accettato un rifiuto.
— ???????????????? ???????????????? ???????????????????????????????????? (@AlanPanassiti) April 4, 2025
Il #femminicidio giustificato da una società tossica nella quale alcuni individui sostengono che la donna dovrebbe dire di si a chiunque pic.twitter.com/MDgQ6ssbs4
Le chiamano "bestie", "femmine", "quelle là". Sono gli uomini che popolano il sottobosco del web italiano, che si radunano nei commenti Facebook (e non solo) sotto le notizie di cronaca nera, in particolare quando le vittime sono donne. Non è una novità: ogni volta che una donna viene uccisa, una parte del web maschile sembra attivarsi e industriarsi non per condannare il crimine, ma per giustificare l'assassino.
"Chissà cosa gli avrà fatto", "Gli avrà messo le corna", "Aveva due bambini con un altro, chiaro che abbia dato di matto". E poi i più diretti, quelli che colpevolizzano e insultano la vittima, la deridono. Un campionario di frustrazione, machismo e sessismo interiorizzati. Una violenza che continua, post mortem, sotto forma di parole. Parole che uccidono una seconda volta e lo si è visto benissimo anche dopo i funerali di Campanella e di Sula, partecipati da molte persone stanche di questa continua tragedia.
Si torna a discutere del tema del femminicidio in seguito all'orribile assassinio di Ilaria Sula. Un omicidio orrendo, che non può non destare orrore e condanna unanime. Su questo punto, nulla quaestio. Discutibile invece, come sempre, la narrazione che è stata prodotta a partire…
— Diego Fusaro (@DiegoFusaro) April 8, 2025
Le campagne hashtag, come #YesAllWomen, nate da tragedie come quella di Elliott Rodger nel 2014 (che uccise sei donne in California), sono gridi digitali diventati anche sfoghi potenti affinché le donne potessero dire "noi ci siamo, esistiamo, rifiutiamo". Non solo parole, ma performance: un palco virtuale per mostrarsi a un pubblico, reale o immaginario, che parla la lingua della rete.
Non è finzione, ma un modo per urlare al mondo come vuoi essere visto, usando ogni strumento a disposizione - intenzionale o no - per costruire la tua scena.
Seguendo questa logica, nascono così i Men's Rights Activists (MRA), figli ribelli della cosiddetta Manosphere, un universo maschile che urla le sue ragioni al mondo. Il loro cavallo di battaglia? La cosiddetta Male Disposability, un concetto che dipinge gli uomini come pedine sacrificabili, meno preziose delle donne, usa-e-getta per il bene della società.
"Tieni duro, non lamentarti, vai avanti": questo è il mantra che li accompagna, anche quando sono malati o feriti. Niente medico, niente debolezze, solo stoicismo a tutti i costi. E la salute mentale? Un disastro sotto silenzio: se le donne tentano il suicidio più spesso, gli uomini lo portano a termine, scegliendo vie brutali come la pistola o i salti nel vuoto.
Sara Campanella e Ilaria Sula.
— Alessia (@AlessiaMangiap8) April 2, 2025
Due donne, con un futuro brillante d'avanti a loro, uccise da mostri spregevoli.
Una manifestazione in piazza in onore di queste donne.
E poi i commenti aberranti di altri esseri, che di umano non hanno nulla. #femminicidio pic.twitter.com/nCCMUbUUT7
Numeri che gridano, ma che gli MRA usano per puntare il dito altrove. Poi c'è il capitolo delle violenze sessuali, dove il dibattito si fa incandescente. Dati chiari, eppure gli MRA li rigirano come una frittata, sostenendo che donne e uomini siano vittime allo stesso modo. Peccato che la realtà smentisca questa parità di comodo.
Ci sarà bisogno del discorso di Ermal Meta, finché non si capirà che femminicidio, non vuol dire uccidere una donna... Se maschio uccide la sorella per l'eredità, non è femminicidio. Femminicidio é un maschio che uccide una donna perché lei non lo vuole, o non lo vuole più o???? https://t.co/NPu5DUKeW7
— valentina (@Valelea98) April 8, 2025
E il problema è che convincere qualcuno a prendere sul serio i loro temi è un'impresa titanica, con il femminismo che aleggia come un'ombra ingombrante nella testa di molti. Invece di soluzioni concrete, si limitano a puntare il dito contro il femminismo o le lotte delle minoranze, come se abbattere gli altri fosse una vittoria.
Non colgono il paradosso: il patriarcato che combattono non schiaccia soltanto le donne, ma soffoca anche loro, incastrandoli in un copione di dominio che non tutti vogliono o possono recitare. La loro red pill finisce per essere un'arma spuntata, più utile a sminuire i problemi femminili che a risolvere i propri.
Gli uomini che scrivono quelle frasi violente non sono "mostri": sono attorno a noi, sono padri, amici, colleghi, fratelli. Fanno parte della stessa società in cui tutti noi agiamo e che plasmiamo con parole e azioni.
Quelle voci rappresentano un pezzo del paese reale, che parla con la pancia e anima tante trasmissioni come "La Zanzara", che diffonde un humus culturale foriero di possibili altri femminicidi, tra "un commento ironico" e un "like" lasciati al post sbagliato.
Patriarcato digitale e violenza verbale: il web italiano è terreno fertile per la diffusione di commenti misogini e giustificazioni dei femminicidi, soprattutto dopo casi mediatici come quelli di Sara Campanella e Ilaria Sula. La rete amplifica una cultura tossica di dominio maschile e disumanizzazione delle vittime.
Cultura maschilista e responsabilità collettiva: non è solo colpa degli algoritmi: il maschilismo strutturale è ancora radicato nella società italiana, che non educa al rispetto e all’empatia. Il fenomeno dei commenti violenti è la spia di un fallimento educativo e culturale profondo.
Il paradosso degli MRA: alcuni gruppi maschili online sollevano temi reali come la salute mentale, ma finiscono per usarli come scudo per attaccare il femminismo e negare la gravità della violenza sulle donne, perdendosi in un vittimismo autoreferenziale che non risolve nulla.