03 Nov, 2025 - 18:20

Fallimenti e chiusure: la desertificazione produttiva italiana nascosta dai giornali di sistema

Fallimenti e chiusure: la desertificazione produttiva italiana nascosta dai giornali di sistema

Il 2025 si sta rivelando un anno nero per il tessuto imprenditoriale italiano: i fallimenti aziendali sono letteralmente esplosi e, nonostante l’impatto devastante su occupazione e produzione, i media mainstream dedicano a questo fenomeno solo cenni marginali, preferendo concentrarsi su altri temi.

Nel silenzio dei principali media, aumenta il senso di allarme tra imprenditori, lavoratori e intere famiglie colpite dalla deindustrializzazione e dal rischio sociale.​

Incremento drammatico e costante dei fallimenti delle aziende

I dati ufficiali parlano chiaro: nel primo semestre del 2025 sono stati dichiarati ben 5.057 fallimenti e liquidazioni giudiziali, contro i 4.477 del primo semestre 2024, una crescita del 13% su base annua.

Se si conta l’intero anno solare, i fallimenti supereranno facilmente la soglia dei 9.600 casi già registrata lo scorso anno, con una stima che per il 2025 arriva a circa 13.000 procedure, un incremento del 35%. La crisi è talmente acuta che in alcune regioni – come il Nord-Est, storicamente “motore” produttivo d’Italia – l’aumento raggiunge picchi impressionanti, complice anche le recenti alluvioni e fattori climatici che hanno colpito le imprese della zona.​

Settori più colpiti: costruzioni e industria

La crisi non risparmia nessun settore strategico: costruzioni e industria sono i comparti più devastati, con un incremento rispettivamente del 16,4% e 15,1% di procedure fallimentari solo nei primi tre mesi dell’anno.

Seguono la manifattura, in difficoltà per il calo della domanda interna e internazionale, e il settore dell’ospitalità. Il commercio, un tempo rifugio per piccoli imprenditori, conta oggi il 21% dei casi, sintomo della fragilità strutturale del mercato italiano e dell’impatto dei dazi e delle crisi politiche globali.​

Effetti reali: allarme occupazione e tessuto sociale

Ogni azienda che chiude lascia dietro sé centinaia di famiglie con il futuro incerto, moltiplicando i casi di disoccupazione e precarietà. Si stima che solo l'effetto dei dazi USA sulle filiere italiane metta a rischio 200.000 posti ed è ormai chiaro che la cosiddetta “ripresa” post-pandemica sia una narrazione illusoria, smentita dai numeri.

Senza interventi strutturali, la deindustrializzazione rischia di diventare irreversibile, con la perdita non soltanto di posti di lavoro ma della capacità produttiva e innovativa del Paese.​

Le cause profonde ignorate dai media

I grandi giornali preferiscono non approfondire le vere cause della crisi: accesso al credito sempre più difficile per le PMI, pressione fiscale opprimente e una burocrazia che scoraggia l’iniziativa imprenditoriale. Le moratorie e i sussidi della pandemia hanno solo rimandato l’inevitabile, creando una “bolla” protetta che ora è scoppiata con forza.

L’aumento vertiginoso delle procedure fallimentari mostra il risultato di anni di ritardo nelle riforme. Il mainstream preferisce concentrarsi sulla cronaca o su temi di costume per non disturbare gli equilibri politici ed economici.​

Il merito dei workers buyout

Mentre la stampa ignora il fenomeno, alcune risposte positive arrivano dal basso: il Workers Buyout (WBO), che consente ai lavoratori di rilevare le aziende in crisi e trasformarle in cooperative, ha salvato 2.000 posti e generato 490 milioni di produzione tra il 2011 e il 2024, contribuendo a tutelare i comparti industriali più colpiti. Questi modelli meritano attenzione e sostegno, ma sui grandi media trovano raramente spazio.

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