La storia del delitto di Garlasco continua a tenere banco in tribunale e nei laboratori della Polizia scientifica, dove si consuma una battaglia di tecnica e giurisprudenza attorno a reperti che, dopo quasi diciotto anni, potrebbero ancora riservare sorprese. Al centro delle nuove indagini, la cosiddetta “impronta 10”, rinvenuta sulla maniglia interna della porta della villetta di via Pascoli 8, dove il 13 agosto 2007 fu uccisa Chiara Poggi. Un segno lasciato da una mano, forse quella del killer, che oggi la scienza forense cerca di decifrare con strumenti sempre più sofisticati, mentre la Procura di Pavia punta a riscrivere la verità processuale su un caso che ha già visto la condanna definitiva di Alberto Stasi.
L’impronta 10 è stata isolata sulla maniglia della porta di ingresso della casa. Si tratta di una delle pellicole acetate sulle quali erano state riversate le impronte impresse sulle fascette para-adesive utilizzate dal RIS di Parma all’epoca del delitto. L’attenzione degli inquirenti si è concentrata su questa traccia perché, secondo la ricostruzione, potrebbe essere stata lasciata dall’assassino mentre abbandonava la scena del crimine.
L’obti test, il test chimico utilizzato per la ricerca di tracce ematiche, ha dato esito negativo: sull’impronta non c’è sangue. Ma questo non significa che la traccia sia priva di valore. Al contrario, la presenza di materiale biologico – cellule epiteliali, sudore, altri fluidi – può comunque permettere l’estrazione di DNA, anche in assenza di sangue. È proprio questo il punto su cui la Procura punta: la possibilità che il killer abbia lasciato la propria “firma” genetica sulla porta, un indizio cruciale per ricostruire la dinamica dell’omicidio e identificare eventuali complici.
Il lavoro dei consulenti tecnici, tra cui la genetista Denise Albani e il dattiloscopista Domenico Marchigiani, prosegue con l’impiego di tamponi riscaldati a 37 gradi, più “carichi” e sensibili, per tentare di recuperare materiale biologico residuo. L’impronta 10, infatti, non appartiene né a Stasi né ad Andrea Sempio, nuovo indagato per concorso in omicidio, ma resta una delle tracce più promettenti per la nuova inchiesta.
L’entusiasmo della Procura si scontra però con la cautela degli esperti e dei consulenti di parte. Marzio Capra, genetista della famiglia Poggi, ha sottolineato che i risultati attesi da questa traccia sono “al limite del limite”, evidenziando le difficoltà tecniche dovute al lungo tempo trascorso e ai possibili processi di degrado del materiale biologico. Nonostante ciò, il pm pavesi insiste: «C’è la firma del killer». Un’affermazione che alimenta la speranza di una svolta, ma che deve ancora trovare conferma nei dati di laboratorio.
Nel frattempo, le nuove analisi si avvalgono di tecniche avanzate come la Bloodstain Pattern Analysis (BPA) e la ricostruzione tridimensionale della scena del crimine tramite scanner laser e droni, strumenti che consentono una mappatura precisa di macchie di sangue, impronte e profili genetici. L’obiettivo è ricostruire la dinamica del delitto e valutare eventuali nuove prove, ma anche verificare se, oltre a Stasi, ci sia stato un concorso di altre persone.
Parallelamente all’esame delle impronte, la nuova fase dell’incidente probatorio prevede l’analisi dei reperti mai esaminati prima, a cominciare dal contenuto della pattumiera di casa Poggi. Le buste sigillate, conservate per quasi diciotto anni presso l’Istituto di medicina legale di Pavia, sono state finalmente aperte.
All’interno, i tecnici hanno trovato il frammento del tappetino del bagno macchiato dalla traccia di sangue lasciata dalla scarpa del carnefice, la scatola dei cereali della colazione, il sacchetto con i fiocchi avanzati, il cucchiaino rinvenuto sul divano (quello che Chiara usava per mangiare i cereali mentre guardava la tv), due vasetti di Fruttolo, un brick di tè freddo, un piattino e l’incarto di plastica dei biscotti. Si tratta di oggetti che potrebbero conservare tracce di DNA di chi, quella mattina, ha consumato la colazione in casa Poggi, prima che la ragazza venisse aggredita.
Ma c’è un ostacolo non indifferente: la buccia di banana. Tra i rifiuti, infatti, c’era anche una buccia di banana che fu rimossa solo otto mesi dopo il delitto, quando il sacchetto venne sequestrato. Nel frattempo, la pattumiera era rimasta nella casa sigillata dai carabinieri. Quando i militari del RIS, in tuta e guanti bianchi, rientrarono nell’abitazione per repertare l’immondizia, la buccia era ormai marcia e quasi incollata al sacchetto.
Il rischio è che la frutta marcia abbia contaminato o addirittura cancellato eventuali tracce di materiale biologico presenti sugli altri oggetti. Gli avanzi di frutta, infatti, sono noti per il loro potere degradativo sui reperti biologici, soprattutto dopo mesi di decomposizione in un ambiente sigillato. Questo potrebbe rendere vana la ricerca di DNA utile all’identificazione di eventuali complici o alla ricostruzione degli ultimi istanti di vita di Chiara Poggi.
La decisione di analizzare la spazzatura dopo diciotto anni ha suscitato forti polemiche, soprattutto da parte della difesa di Andrea Sempio. Gli avvocati hanno presentato opposizione all’apertura delle buste, sostenendo che non ci sia mai stato un provvedimento di sequestro formale e che la conservazione dei rifiuti per un periodo così lungo sia senza precedenti. «Chi è che tiene una spazzatura per 18 anni? Mai sentita una roba del genere. In più, non mi pare che fu mai sequestrata, perché i RIS non la repertarono», ha dichiarato Massimo Lovati, uno dei legali di Sempio.
Nonostante queste perplessità, la Procura ritiene che la ricerca di DNA tra i reperti della pattumiera sia fondamentale per confermare o smentire l’ipotesi di un omicidio commesso da più persone. I vasetti di Fruttolo, in particolare, sono al centro delle attenzioni degli inquirenti, perché potrebbero essere stati consumati da qualcun altro rispetto a Chiara, che abitualmente faceva colazione con biscotti e cereali direttamente dalla busta, seduta sul divano.
Il caso di Garlasco è ormai diventato un simbolo delle difficoltà e delle potenzialità delle indagini scientifiche su reperti molto datati. Da una parte, la tecnologia forense offre strumenti sempre più potenti per estrarre informazioni da tracce minime; dall’altra, il tempo e le condizioni di conservazione possono compromettere irrimediabilmente la qualità dei reperti.
L’impronta 10 resta una speranza concreta per la Procura, che punta a ricavare il profilo genetico del killer o di un complice. La spazzatura, invece, rappresenta un’incognita: la buccia di banana potrebbe aver cancellato tutto, ma anche una traccia minima, sopravvissuta alla degradazione, potrebbe riservare sorprese.
In attesa degli esiti definitivi, previsti per ottobre, il delitto di Garlasco continua a interrogare magistrati, tecnici e opinione pubblica. La ricerca della verità passa ancora una volta dalle impronte, dal DNA e da una pattumiera che, dopo quasi diciotto anni, potrebbe ancora parlare.