Il 4 agosto 2025 ha segnato un nuovo punto di svolta nel conflitto tra Israele e Hamas: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato, tramite un alto funzionario del suo ufficio, l'intenzione di occupare totalmente la Striscia di Gaza.
La notizia, diffusa dall’emittente Channel 12 e confermata da fonti governative a diverse testate internazionali, ha avuto immediata eco non solo in Israele e nei Territori palestinesi, ma in tutto il mondo arabo e tra le maggiori potenze internazionali.
“Occuperemo totalmente la Striscia di Gaza. La decisione è stata presa.” Queste le parole forti provenienti dall’ufficio del premier israeliano, che ha sottolineato come l’operazione sia il frutto di una scelta ormai inevitabile.
Secondo quanto riportato, la posizione dello Stato ebraico è stata chiara: “Hamas non rilascerà altri ostaggi senza una resa totale, e noi non ci arrenderemo. Se non agiamo ora, gli ostaggi moriranno di fame e Gaza resterà sotto il controllo di Hamas”.
A fare da detonatore all’annuncio, la diffusione di nuovi video e testimonianze sulla condizione estrema degli ostaggi israeliani ancora prigionieri nei tunnel sotto Gaza, ridotti alla fame e senza assistenza sanitaria.
Netanyahu ha paragonato il trattamento degli ostaggi da parte di Hamas alle sofferenze inflitte dai nazisti agli ebrei durante la Shoah, una retorica fortissima pensata anche per galvanizzare l’opinione pubblica israeliana e giustificare una svolta radicale nella conduzione delle operazioni militari.
Fondamentale, nell’ambizione israeliana di un’occupazione totale della Striscia, è arrivato il sostegno degli Stati Uniti. Secondo diversi media, sarebbe stato proprio Donald Trump – tornato nel frattempo alla Casa Bianca – a dare a Netanyahu il “via libera” per un’operazione su larga scala contro Hamas.
La scelta riflette la linea dura del nuovo corso americano nei confronti della questione israelo-palestinese e segna una rottura rispetto agli equilibri cercati nei mesi precedenti tramite la diplomazia internazionale.
Il piano presentato da Netanyahu si articola su tre obiettivi fondamentali:
Alla strategia militare di occupazione totale di Gaza annunciata da Netanyahu si affianca, secondo numerose fonti e dichiarazioni ufficiali, un controverso piano parallelo: quello della “migrazione volontaria” o deportazione di massa dei palestinesi fuori dalla Striscia.
Il progetto, discusso apertamente dallo stesso premier israeliano anche in incontri ufficiali con Donald Trump a Washington, viene presentato pubblicamente come una soluzione umanitaria per i civili di Gaza, ai quali verrebbe “offerto un futuro migliore” in altri Paesi, con la collaborazione (incoraggiata dagli Stati Uniti) di nazioni terze disposte ad accoglierli.
Secondo le dichiarazioni raccolte, Netanyahu ha sostenuto che “se i palestinesi vorranno andarsene, dovrebbero poterlo fare”, precisando comunque che il controllo militare e la decisione finale su chi può uscire da Gaza sarebbero saldamente nelle mani di Israele.
Nelle sue forme pratiche, il piano si articolerebbe in diverse fasi:
Le reazioni della comunità internazionale sono di forte condanna: le ONG accusano Israele di operare una “pulizia etnica”, e le Nazioni Unite parlano di crimini contro l’umanità.
Gli abitanti di Gaza, da parte loro, respingono la proposta, dichiarando – come documentato da Reuters – la ferma volontà di non abbandonare mai la propria terra. Il piano viene interpretato come un tentativo di svuotare definitivamente Gaza della sua popolazione originaria, sostituendo la presenza palestinese con un controllo militare israeliano a tempo indefinito.
Questa dimensione “deportativa” si intreccia così in modo strutturale al piano di conquista militare della Striscia, aggravandone la portata e le conseguenze umanitarie e politiche.
La decisione di occupare totalmente la Striscia di Gaza, se da un lato vede il consenso di ampi settori della politica e dell’opinione pubblica israeliana – stanchi dello stallo dei negoziati e colpiti dalla sofferenza degli ostaggi –, dall’altro ha suscitato polemiche e timori anche ai vertici dell’esercito.
Netanyahu avrebbe avvertito il Capo di Stato Maggiore che, qualora non si sentisse in grado di guidare l’operazione, poteva dimettersi. Nel frattempo, 600 ex funzionari della sicurezza israeliani hanno scritto a Trump chiedendo di esercitare pressione su Gerusalemme affinché ponga fine a una guerra che rischia di assumere ora le proporzioni di un vero e proprio scontro totale.
Sul piano internazionale, gli alleati europei hanno espresso “profonda preoccupazione” per le conseguenze umanitarie di un’occupazione integrale della Striscia, in un contesto in cui centinaia di migliaia di civili rischiano la fame e la mancanza di accesso ai servizi base.
L’“occupazione totale” di Gaza rappresenta un salto strategico e politico dall’esito incerto. Significa l’ingresso delle Forze di Difesa Israeliane anche nei campi centrali, finora evitati, comportando rischi enormi sia per gli ostaggi sia per la popolazione locale.
Significa anche dover gestire un territorio devastato, con milioni di palestinesi senza un governo riconosciuto e con la comunità internazionale pronta a tornare protagonista, se non altro nella gestione degli aiuti umanitari e nella ricostruzione.
In definitiva, il piano di Netanyahu per la conquista totale di Gaza annuncia uno degli snodi più drammatici e controversi nella crisi mediorientale contemporanea, promettendo sviluppi che segneranno profondamente la regione nei mesi e negli anni a venire.