La recente circolazione online di un audio privato di Raoul Bova, inviato a Martina Ceretti e diventato un meme su tutti i social, ha sollevato tante domande, soprattutto sulle implicazioni legali della sua diffusione.
Il Garante della Privacy è intervenuto per chiarire che la pubblicazione e la condivisione di registrazioni vocali senza il consenso della persona coinvolta costituisce una violazione della normativa sulla protezione dei dati personali.
In base al Regolamento europeo GDPR e al Codice della privacy italiano, chi diffonde o rilancia materiale privato senza autorizzazione rischia sanzioni amministrative significative, ma anche possibili conseguenze penali in caso di danno reputazionale o diffusione su larga scala. Come in questo caso.
Scendiamo nei dettagli di questa delicata questione.
Quello che per molti è stato solo un contenuto virale da condividere con leggerezza e, diciamolo, con grasse risate, si sta trasformando in un severo monito legale.
Il caso della diffusione dell'audio privato di Raoul Bova ha smesso di essere un semplice pettegolezzo da social network nel momento in cui il Garante per la Pivacy ha avviato un'istruttoria formale.
Un'azione che traccia una linea netta nella sabbia, ricordando a tutti – utenti, influencer e aziende – che dietro la viralità c'è una persona, e che i suoi diritti non sono negoziabili.
L’intervento del Garante non è un avvertimento a vuoto, ma si fonda su pilastri normativi solidissimi. La pubblicazione di contenuti privati senza il consenso dell'interessato si scontra frontalmente con i principi del GDPR, il regolamento europeo che costituisce la spina dorsale della tutela della privacy.
Le conseguenze non sono di poco conto: l'articolo 83 del regolamento prevede sanzioni amministrative che possono raggiungere i 20 milioni di euro o il 4% del fatturato globale di un'azienda, specialmente quando viene violato il principio fondamentale del consenso.
A questo si aggiunge il Codice della Privacy italiano, che all'articolo 167 introduce anche una dimensione penale.
Se la diffusione avviene per trarne un profitto o con l'intenzione di arrecare un danno, si configura un reato punibile con la reclusione fino a un anno e mezzo. Non si tratta di mere ipotesi teoriche.
La giurisprudenza italiana si è già mossa in questa direzione, con sentenze come quella del Tribunale di Reggio Emilia, che ha condannato i responsabili della diffusione di un video intimo, stabilendo il diritto della vittima a un risarcimento per il danno non patrimoniale subito.
Il messaggio della giustizia è chiaro: la dignità e l'immagine di una persona non perdono valore nel mondo digitale.
Ma cosa rischia, in concreto, chi ha condiviso o riutilizzato quel file audio? L'avvertimento ufficiale del Garante è esplicito: ogni ulteriore utilizzo del materiale senza autorizzazione sarà perseguito.
Questo significa che chiunque abbia usato l'audio per creare meme, video umoristici, post sui social o, peggio, campagne pubblicitarie, si espone a un rischio legale su più fronti. Si va dalle pesantissime sanzioni amministrative, a un'azione civile per il risarcimento dei danni morali subiti dall'attore, fino alle possibili conseguenze penali nei casi più gravi.
Il contesto digitale, con la sua capacità di amplificare i contenuti in modo incontrollabile, rende la situazione però molto complessa. Una volta che un file diventa virale, la responsabilità si frammenta e si diffonde, coinvolgendo potenzialmente anche grandi piattaforme e brand, come sta già accadendo nel caso di specie.
La vicenda Bova, dunque, funge da spartiacque. Dimostra con forza che la distinzione tra sfera pubblica e privata è un diritto tutelato con fermezza dalla legge, anche di fronte alla pressione della viralità.
È un richiamo al senso civico, di responsabilità individuale e collettiva, che impone una riflessione prima di ogni click: dietro ogni clip che ci fa sorridere, potrebbe nascondersi una violazione della legge che potrebbe costare molto cara.