Agosto 2000. Nel cuore del Mare di Barents, durante un’esercitazione navale, il sottomarino nucleare russo K-141 Kursk subisce una serie di esplosioni che lo condannano a inabissarsi senza mai più risalire in superficie.
A bordo, 118 uomini: marinai, ufficiali, padri, figli. Le prime ore sono di confusione, seguite da un drammatico tentativo di soccorso, ostacolato da condizioni proibitive e ritardi fatali nelle decisioni.
La tragedia del Kursk non è solo un episodio tragico di storia militare: è il racconto di un sacrificio, di errori umani che hanno pesato come macigni e di un dolore che ha attraversato famiglie e nazioni.
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Era l'agosto del 2000. Nelle gelide acque del Mare di Barents, la Flotta del Nord russa era impegnata in una delle più imponenti esercitazioni navali dalla fine della Guerra Fredda.
Tra i protagonisti di quella dimostrazione di forza c'era il K-141 Kursk, un sottomarino a propulsione nucleare classe Oscar II, un gigante d'acciaio considerato inaffondabile.
Ma in pochi, terribili istanti, l'orgoglio della marina si trasformò in una tomba d'acciaio, dando inizio a una drammatica e disperata corsa contro il tempo per salvare i sopravvissuti intrappolati a più di cento metri di profondità.
Per capire la portata della tragedia, bisogna prima capire cos'era il Kursk.
Il Kursk non era un sottomarino qualunque, ma un "cacciatore di portaerei". Con i suoi 153 metri di lunghezza e le sue 19.400 tonnellate di dislocamento, era un titano degli abissi progettato con un unico scopo: localizzare e annientare le portaerei statunitensi.
Per farlo, era armato con 24 missili P-700 Granit, ordigni grandi come piccoli aerei, ciascuno in grado di trasportare una testata convenzionale o nucleare.
Alimentato da due reattori nucleari, il Kursk era un predatore veloce, potente e letale, un simbolo della potenza militare ereditata dall'Unione Sovietica.
Il 15 agosto 2000, il Kursk doveva simulare un attacco con siluri contro l'incrociatore Pyotr Velikiy.
Alle 11:20 del mattino, però, una violenta esplosione sottomarina scosse l'area dell'esercitazione. Due minuti dopo, una seconda detonazione, immensamente più potente, fu registrata persino dalle stazioni sismiche in Norvegia.
L'esplosione squarciò la prua del sottomarino, vicino al compartimento siluri, facendolo affondare rapidamente a 107 metri di profondità.
Cosa era successo? L'inchiesta della Marina russa concluse che la catastrofe fu innescata da un dettaglio apparentemente insignificante: una saldatura difettosa in un siluro d'addestramento, un Type 65-76A.
Questo siluro utilizzava come propellente il perossido di idrogeno, una sostanza altamente volatile che, a contatto con certi metalli, può decomporsi in modo esplosivo.
Una piccola perdita di carburante innescò un incendio nel compartimento siluri. Il calore fece detonare la testata del primo siluro. Questa esplosione, a sua volta, causò una reazione a catena che fece esplodere gli altri siluri presenti a bordo, segnando il destino della maggior parte dell'equipaggio, che morirono sul colpo a causa dell'esplosione.
Ma non tutti morirono all'istante. In un ultimo, disperato messaggio scritto al buio due ore dopo il disastro, il tenente capitano Dmitri Koselnikov registrò la presenza di 23 sopravvissuti, rifugiatisi in un compartimento a poppa.
Mentre il mondo guardava con il fiato sospeso, iniziò una caotica operazione di salvataggio, ostacolata dall'iniziale riluttanza del governo russo ad accettare aiuti internazionali, da parte di Gran Bretagna e Norvegia.
Quando finalmente le squadre di soccorso britanniche e norvegesi raggiunsero il relitto, era troppo tardi. Nessuno dei 23 marinai era sopravvissuto.
Un anno dopo, il relitto mutilato del Kursk fu recuperato e riportato in cantiere, un silenzioso monumento a una delle più gravi tragedie navali in tempo di pace, un monito su come anche il più potente dei giganti possa essere sconfitto da un singolo, fatale difetto.
I marinai in gabbia, stavano affrontando due nemici invisibili: la mancanza di ossigeno (O2), che si consumava a ogni respiro e l'accumulo di anidride carbonica (CO2), tossica e mortale.
Per combattere questo, i sottomarini sono equipaggiati con delle cartucce chimiche di rigenerazione dell'aria. Sono piastre che, quando attivate, innescano una reazione chimica che assorbe l'anidride carbonica e rilascia ossigeno fresco. Sono un kit di sopravvivenza essenziale.
Ma queste cartucce hanno un tallone d'Achille: diventano estremamente pericolose se entrano in contatto con acqua o, peggio, con olio. In quel compartimento buio e danneggiato, l'acqua stava lentamente salendo.
Secondo la ricostruzione più accreditata, uno dei marinai, nel tentativo di sostituire una di queste cartucce, la fece cadere accidentalmente nell'acqua oleosa sul pavimento. La reazione fu immediata e catastrofica: un lampo di fuoco (flash fire).
In una frazione di secondo, questo incendio chimico divorò tutto l'ossigeno rimasto nel compartimento e riempì l'aria di monossido di carbonio e fumi tossici.
Le analisi successive sui corpi rivelarono che gli uomini morirono per una combinazione di gravissime ustioni chimiche e avvelenamento da monossido di carbonio.
Fu una morte rapidissima, non una lenta attesa. La prova più toccante viene dall'ultima nota del tenente Kolesnikov. Il suo scritto si interrompe bruscamente, la calligrafia diventa quasi illeggibile, come se l'avesse scritta nel panico più totale, pochi istanti prima che la catastrofe finale si scatenasse.
Lo strumento che doveva garantire loro qualche ora in più di vita divenne la causa della loro morte istantanea. Non morirono per mancanza d'aria, ma da un incidente fatale mentre cercavano disperatamente di sopravvivere.