Mia Martini, pseudonimo di Domenica Bertè, è stata una delle voci più struggenti e autentiche della musica italiana.
La sua parabola artistica e personale s’intreccia con la sofferenza, l’emarginazione e una dolorosa vicenda legata all’abuso di stupefacenti e all’esperienza del carcere.
Questi eventi, spesso amplificati dalle dicerie e dai pettegolezzi del mondo dello spettacolo, hanno profondamente inciso sulla sua vita e credo anche sulla sua tragica fine.
Nel 1969, quando ancora era conosciuta come Mimì Bertè, Mia Martini viene arrestata in Sardegna dopo una serata nel celebre locale Pedro’s di Porto Cervo.
Durante una retata della polizia, nella sua borsa viene rinvenuto meno di mezzo grammo di hashish, una quantità che oggi sarebbe considerata trascurabile ma che, in base alla legge in vigore allora, portò a conseguenze pesantissime.
Mimì fu trattata alla stregua di un trafficante, subendo quattro mesi di reclusione nel carcere di Tempio Pausania. Durante quella detenzione, vissuta in completa solitudine, la cantante affrontò una dura depressione. Nessuno venne a trovarla, nemmeno familiari o amici.
La permanenza in prigione fu talmente devastante che la Martini avrebbe pensato persino al suicidio, anche se questa circostanza non è mai stata definitivamente confermata.
L’unico conforto rimase il canto, che condivideva con le altre detenute. L’etichetta discografica per cui lavorava bloccò l’uscita di un suo disco, e il suo nome finì sulle prime pagine dei giornali: un marchio difficile da cancellare, soprattutto per una giovane donna ai primi passi nel mondo della musica.
L’arresto e il successivo processo rappresentano un vero e proprio spartiacque nella vita e nella carriera di Mia Martini. Da quel momento, molte porte si chiudono, e nello showbiz iniziano a circolare voci infamanti che segneranno la sua reputazione, facendole terra bruciata attorno.
L’essere definita “porta sfortuna”, termine che si fa largo nella discografia e tra gli addetti ai lavori, la condanna all’isolamento professionale, alimentando la sua fragilità già provata dagli eventi.
Negli anni successivi, Mia Martini cerca di risalire la china. La sua vita continua ad essere segnata dal dolore, dalle delusioni sentimentali e dalle malattie.
Si susseguono momenti di intensi successi e altrettanto profonde crisi personali. Le accuse di abuso di stupefacenti continuano a inseguirla, anche se nel corso degli anni lei stessa ha ridimensionato l’episodio della droga come “una sigaretta per dimenticare”, minimizzando la portata dell’evento.
Il 12 maggio 1995, Mia Martini viene trovata senza vita nella sua abitazione di Cardano al Campo, in provincia di Varese. Aveva 47 anni. La scena è straziante: stesa sul letto, con le cuffie alle orecchie, pare fosse già morta da almeno quarantotto ore.
Il referto medico stabilisce che il decesso fu causato da un arresto cardiaco provocato da overdose di cocaina. L’autopsia rivela tracce di stupefacenti; alcuni resoconti parlano di grumi di sangue sotto le narici, compatibili con l’inalazione di cocaina, e di residui di polvere bianca sui suoi effetti personali.
Nonostante ciò, la famiglia di Mia Martini, e in particolare la sorella Leda, hanno sempre contestato la versione dell’uso di droga come causa diretta della morte. Alcuni sostengono che Mimì, negli ultimi mesi, stesse curando un fibroma all’utero con farmaci potenti—un dettaglio che avrebbe potuto influenzare il quadro clinico, ma che non è stato mai completamente approfondito, anche a causa della rapida cremazione del corpo.
Altri ancora ventilano l’ipotesi del suicidio, un pensiero che affiora nella mente di chi ricorda il suo dolore, ma che non trova conferme oggettive.