Victoria Roschyna è stata una giornalista di guerra il cui destino tragico illumina i pericoli e le violenze che possono colpire chi sceglie di raccontare la verità in contesti di conflitto armato. Nota soprattutto dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, Roschyna decise di avvicinarsi ai teatri della guerra per osservare e documentare la realtà da vicino. La sua passione per il giornalismo d’inchiesta la spinse a compiere quattro missioni sul campo, consapevole dei rischi estremi insiti nel suo lavoro. Nel corso di una di queste missioni fu arrestata e sequestrata nel 2022.
Durante la detenzione fu costretta a registrare un video in cui affermava che i militari russi fossero dei liberatori, dichiarazioni che avrebbe poi ritrattato una volta libera. La vicenda della giovane giornalista culminò tragicamente nell’agosto del 2023, quando morì a seguito di un secondo arresto e relativa detenzione, e il suo corpo, restituito alla Russia nel febbraio 2024, mostrava chiari segni di torture e maltrattamenti. La salma venne inizialmente identificata come “uomo non identificato”, e durante l’autopsia risultò che erano stati rimossi organi vitali, probabilmente per impedire la ricostruzione di ciò che Victoria aveva subito.
La vicenda di Roschyna solleva questioni profonde sul ruolo del giornalismo in zone di guerra e sul rispetto della libertà di stampa. Durante il programma “Incidente probatorio - cronache d’estate”, trasmesso sul canale 122, il conduttore ha chiesto agli ospiti quanto il giornalismo d’inchiesta possa diventare scomodo in ambiti bellici. Lisa Di Giovanni, giornalista, ha sottolineato che Victoria si era immediatamente schierata con la causa ucraina, dedicandosi con coraggio a raccontare la verità. Le sue inchieste rappresentano un esempio concreto di libertà di parola violata: la sua uccisione ha cercato di cancellare non solo la sua vita, ma anche la possibilità di testimoniare le atrocità. Restituirla come “uomo non identificato” e rimuovere organi vitali durante l’autopsia ha costituito un tentativo deliberato di occultare le prove delle torture subite.
Mauro Valentini, giornalista e scrittore, ha spiegato come il giornalismo di guerra richieda un fuoco interiore: chi sceglie questa professione sa che la sicurezza non è garantita, ma sente l’urgenza di raccontare la verità a ogni costo. Gli inviati comprendono il rischio ma lo accettano per testimoniare ciò che accade, esattamente come nel caso di Ilaria Alpi, uccisa mentre cercava di documentare la verità. Victoria Roschyna, ha aggiunto Valentini, è stata probabilmente uccisa per umiliazione e non per segreti, raccontava storie di persone comuni e testimoniava eventi che le autorità non volevano divulgare.
Elisa Brunelli, avvocato civilista, ha ricordato la determinazione e il coraggio della giornalista in un contesto difficilissimo. Victoria avrebbe sicuramente raccontato le torture e le barbarie incontrate sul campo, e proprio per questo è stata zittita. Tuttavia, ha spiegato Brunelli, la giornalista non muore con la morte fisica: lascia una traccia indelebile per il futuro, simbolo di resilienza e passione per la verità che continuerà a ispirare il giornalismo.
Marco Valerio Verni, avvocato penalista, ha approfondito le normative e le protezioni internazionali a tutela dei giornalisti in zone di conflitto. La libertà di stampa è strettamente collegata alle leggi internazionali e umanitarie, che prevedono tutele specifiche per chi opera in territori di guerra. Verni ha spiegato la differenza tra corrispondenti di guerra ufficiali e operatori, come probabilmente era Victoria: in entrambi i casi, tortura e omicidio non sono ammessi. Ciò nonostante, Victoria poteva essersi addentrata in territori complessi senza autorizzazione, trovandosi in un confine sottile tra il ruolo di giornalista e quello di sospetto spia agli occhi dei vertici russi.
Tommaso Spasari, docente in Medicina Legale, ha chiarito come l’analisi del corpo possa ricostruire con precisione le violenze subite. La rasatura dei capelli, pratica comune in alcune carceri, ha anche un forte valore umiliante per una donna. Victoria durante il primo arresto riuscì a sopravvivere assecondando i carcerieri, ma successivamente, rivelando la verità del video girato, provocò la reazione dei vertici russi, con conseguenze drammatiche. L’autopsia ha evidenziato segni di elettroshock, possibile privazione di cibo e sonno, e gravi mutilazioni, tra cui la rimozione della materia cerebrale, dei bulbi oculari e della trachea. Gli occhi servono per osservare, la trachea per parlare: privare Victoria di queste capacità significa negarle la possibilità di vedere e di raccontare, annientando simbolicamente la funzione stessa del giornalismo.
La stampa internazionale, come evidenziato anche dai reportage di “Guerre di stampa”, conferma la centralità della libertà di informazione e la necessità di protezione di chi opera in contesti ostili. Victoria è una martire del giornalismo: pur segnata dalla violenza, la sua storia continua a illuminare l’importanza della verità e della testimonianza, ricordando al mondo che la libertà di parola è un diritto fondamentale da difendere, anche nei contesti più pericolosi.