Il programma di approfondimento “Trovati Morti”, condotto da Fabio Camillacci sul canale 122, ha riportato all’attenzione del pubblico il caso di Elisabetta Di Leonardo, detta Betty, conosciuto come il delitto di via dei Prefetti. Una vicenda oscura, avvenuta a Roma nel 1986, che rimane irrisolta e che, nonostante l’impatto mediatico iniziale, è scivolata lentamente nell’oblio. A raccontarla, insieme al conduttore, sono intervenute la criminologa e giornalista Barbara Fabbroni e la giornalista de Il Fatto Quotidiano Alessandra De Vita, che ha dedicato a questa storia un capitolo del suo libro Sospese. Femminicidi irrisolti dal caso Montesi al delitto di via Poma.
La ricostruzione degli eventi parte da quei giorni di giugno del 1986. Betty viene vista viva per l’ultima volta il 23, da alcune inquiline del palazzo in via dei Prefetti. Quattro giorni dopo, il 27, l’odore sospetto che invade lo stabile spinge i condomini a chiamare i vigili del fuoco. Non si tratta di gas, come temuto, ma del corpo della giovane ormai in decomposizione. La scena è brutale: la ragazza è stata strangolata con una collanina e colpita al petto con sette coltellate. Attorno a lei siringhe e utensili per la preparazione della droga, ma la morte non è riconducibile all’uso di stupefacenti. Sul suo corpo, una banconota da cinquantamila lire, un dettaglio che ancora oggi segna la differenza tra un delitto dettato dall’impeto e un omicidio che porta con sé un significato simbolico.
Secondo Barbara Fabbroni, quel gesto va letto come una sorta di marchio lasciato dall’assassino. Non solo una firma per rivendicare l’atto, ma un modo per umiliare la vittima, trasformando l’omicidio in un atto narcisistico e crudele. La presenza della banconota è l’emblema della disumanizzazione: non un semplice omicidio, ma un messaggio, il tentativo di ridurre una giovane donna con i suoi sogni e le sue fragilità a un corpo senza dignità, violato e deriso.
Dietro quella morte, tuttavia, non c’è soltanto un delitto isolato. Betty era una ragazza originaria di Cagliari, arrivata a Roma per inseguire un futuro migliore. Negli anni Ottanta la capitale era ancora il centro di un mondo scintillante, fatto di ambizioni, mondanità e promesse di successo. Betty ne fu attratta, come molte coetanee, ma presto i suoi sogni si infransero. La fine di una relazione sentimentale la lasciò sola e vulnerabile, priva di punti di riferimento. Iniziò a gravitare attorno a un ambiente in cui la droga era diffusissima e in cui giovani della borghesia romana vivevano tra feste e eccessi. Fabbroni ha sottolineato come la vicenda di Betty riveli il lato oscuro della ricerca di una vita migliore: il desiderio di cambiare esistenza può trasformarsi in una trappola, soprattutto quando ci si avvicina a cerchi sociali e di potere da cui è difficile uscire.
Anche Alessandra De Vita, nella sua analisi, ha evidenziato la dimensione sociale e politica di questa storia. L’omicidio di via dei Prefetti, infatti, fece scalpore al momento della scoperta, ma venne presto rimosso. Le fonti sono scarsissime: pochi articoli dell’epoca, qualche ricordo sparso, ma nessun atto giudiziario, perché non ci fu mai un processo. È come se il caso fosse stato spinto nel dimenticatoio da una volontà precisa, quasi una strategia per sottrarlo alla memoria collettiva. Persino le fotografie di Betty sono scomparse e oggi ne resta soltanto una, come se la sua stessa immagine dovesse essere cancellata.
Il paragone con il caso Montesi è inevitabile, e De Vita lo affronta con chiarezza. Negli anni Cinquanta la morte di Vilma Montesi fu strumentalizzata dai media e dal potere politico per alimentare uno scandalo, attribuendole un ruolo che non le apparteneva. Betty, invece, si mosse consapevolmente verso quel mondo dorato e pericoloso, ma finì vittima della sua stessa ricerca. Entrambe, però, rimasero intrappolate in dinamiche di potere che impedirono di arrivare a una verità giudiziaria.
Sul fronte investigativo, l’unico arresto fu quello del giornalista pubblicista Dimitri Buffa, figlio del segretario dell’Associazione Stampa Romana. Era stato visto entrare nello stabile il giorno della scomparsa di Betty e nella sua abitazione furono trovati trentadue grammi di cocaina. L’accusa, però, fu solo di detenzione di stupefacenti e non ci fu alcun collegamento provato con l’omicidio. Per De Vita, il suo fermo fu più una mossa tattica che il risultato di un reale sospetto, gli inquirenti speravano che attraverso lui potessero emergere dettagli sulla vita di Betty e sulle sue relazioni, ma non emerse nulla di utile.
L’arma del delitto venne ritrovata, ancora sporca di sangue, ma neppure questo portò a un esito. Mancò un processo e delle indagini accurate, per questo il caso si arenò presto. La Fabbroni ha sottolineato come questi fallimenti rivelino la crudeltà simbolica di un potere che non solo annienta vite fragili, ma spesso impedisce anche che la verità emerga.
A distanza di quasi quarant’anni, il delitto di via dei Prefetti resta uno dei tanti femminicidi sospesi, irrisolti, dimenticati.