Nella puntata della trasmissione Trovati morti. L’orrore di Chiavenna: tre ragazzine uccidono Suor Maria Laura Mainetti, in onda sul canale 122, il dibattito si è concentrato su uno dei delitti più inquietanti degli ultimi decenni, un episodio che ha sconvolto non solo una comunità ma l’intero Paese. A parlarne sono stati tre ospiti con prospettive differenti: Barbara Fabbroni, psicoterapeuta, criminologa e giornalista, Fabio Sanvitale, giornalista investigativo, e Antonio Nucera, avvocato penalista. Le loro analisi hanno permesso di rileggere, vent’anni dopo, quella notte del 6 giugno 2000 in cui suor Maria Laura Mainetti perse la vita sotto i colpi inferti da tre adolescenti.
La vicenda non può essere compresa senza ricordare chi fosse la vittima. Nata a Colico, in provincia di Lecco, il 20 agosto 1939, Teresina Mainetti crebbe in una famiglia semplice e profondamente religiosa. Ricevette il battesimo due giorni dopo, a Villatico, e già da giovane avvertì la vocazione. Nel 1957 iniziò il postulato a Roma tra le Figlie della Croce e due anni più tardi emise i primi voti. Si dedicò all’insegnamento, lavorando in diverse città italiane, da Vasto a Roma, da Parma a Chiavenna. A distinguerla era un carattere mite, una disponibilità verso gli altri che la rese un punto di riferimento per molti, in particolare per i più fragili. Fu proprio questa disponibilità a condurla alla trappola: rispondendo a una richiesta d’aiuto credette di poter consolare una giovane in difficoltà e invece cadde in un agguato mortale.
La sera del 6 giugno del 2000, Veronica Pietrobelli la chiamò fingendo di avere un problema e le chiese di incontrarla. Suor Maria Laura non esitò a scendere. In strada trovò non solo Veronica ma anche Milena De Giambattista e Ambra Gianasso. Insieme le ragazze la trascinarono verso un luogo appartato e lì la colpirono ripetutamente con un coltello. Secondo la ricostruzione, il piano prevedeva diciotto coltellate, numero che avrebbe avuto un significato simbolico, ma alla fine furono diciannove i colpi inferti, l’ultimo fatale. Le tre adolescenti, due diciassettenni e una sedicenne, confessarono poco dopo di aver agito spinte dalla noia, dal desiderio di provare emozioni forti, dalla ricerca di un brivido che le facesse uscire dall’anonimato. In questo quadro si inseriva anche il riferimento al satanismo, evocato da loro stesse ma più come un richiamo superficiale che come una reale adesione.
Dopo l’arresto, avvenuto tre settimane più tardi, iniziò un processo complesso. Veronica Pietrobelli fu condannata a otto anni ma ottenne la libertà già nel 2004, dopo averne scontati quattro. Milena De Giambattista seguì un percorso simile e, una volta uscita dal carcere, intraprese un cammino di recupero che la portò anche nella comunità di don Antonio Mazzi. Ambra Gianasso, ritenuta la mente del gruppo, ricevette la pena più alta, dodici anni e quattro mesi, ma fu riconosciuta parzialmente incapace di intendere e volere. Dopo un periodo in carcere passò al regime di semilibertà e infine tornò libera, iscritta all’università, facoltà di giurisprudenza. Oggi tutte e tre hanno cambiato vita: si sono trasferite, alcune si sono sposate e hanno avuto figli, costruendo nuove identità lontano da Chiavenna.
Nella trasmissione Barbara Fabbroni ha posto l’accento sulla pianificazione dell’omicidio, che non può essere ridotto a un gesto improvviso. Le ragazze avevano deciso di attirare una donna indifesa, una suora, e di ucciderla seguendo un copione che prevedeva un numero preciso di colpi. Per la criminologa, il legame con il satanismo va considerato, anche se non come elemento strutturale. È piuttosto l’espressione di un vuoto esistenziale e di un’adolescenza segnata dalla noia, dall’incapacità di gestire emozioni e frustrazioni. Tre adolescenti senza punti di riferimento, incapaci di misurarsi con la realtà, trasformarono il bisogno di sentirsi vive in un gesto di morte. La riflessione della Fabbroni ha riportato l’attenzione sull’importanza di vigilare sul mondo adolescenziale, perché in certe fasi della crescita il confine tra gioco, sfida e violenza può diventare pericolosamente sottile.
Fabio Sanvitale ha offerto una lettura differente, definendo l’idea di una “ragazzata” inaccettabile ma al tempo stesso ridimensionando il ruolo del satanismo. A suo giudizio, i riferimenti al diavolo e al numero delle coltellate furono più un orpello che una reale convinzione. Mancavano conoscenze approfondite, rituali codificati, collegamenti con gruppi esoterici. Il nodo centrale era un altro: il disagio psichiatrico e sociale delle tre adolescenti. Vivevano in un piccolo paese, si sentivano invisibili, e cercavano un modo di affermarsi. Frequentavano ambienti marginali, "tra alcol e fumo", e coltivavano l’illusione di potersi distinguere attraverso un gesto clamoroso. Per Sanvitale non fu un gioco, né un rituale satanico, ma il frutto malato della loro fragilità, della noia e di un desiderio di visibilità degenerato nell’orrore.
Antonio Nucera ha riportato il discorso sul piano giuridico. Ricordando che all’epoca le imputate erano minorenni, l’avvocato ha spiegato quanto sia complesso valutare la responsabilità penale in questi casi. Negli adulti è più facile distinguere tra volontà e conseguenze, ma negli adolescenti la personalità è ancora in formazione, l’identità è incerta, l’autocontrollo incompleto. L’atto resta devastante, ma la valutazione deve tener conto di una maturazione non ancora conclusa. La parziale incapacità di intendere e volere riconosciuta ad Ambra Gianasso è un esempio di questa difficoltà di giudizio. Nucera ha insistito sull’importanza di distinguere tra intenzione e capacità reale di comprendere l’evento, una differenza che segna profondamente i processi a carico di minori.