C’è un veleno che serpeggia da anni nella società italiana. Non è un gas invisibile, non è una malattia virale, ma un morbo morale e culturale.
È l’intolleranza di una certa sinistra — o meglio, di quella sinistra che sopravvive solo per giudicare, condannare, e ridurre al silenzio chi non appartiene alla sua tribù ideologica.
È la forma più pericolosa di arroganza: quella di chi si crede investito di una missione etica.
Come evidenzia Marcello Veneziani su La Verità, si tratta di una minoranza convinta di essere la coscienza del mondo. Gente che non ammette repliche, che decide chi è degno e chi no, chi merita di parlare e chi deve essere escluso dal consesso civile.
È un comportamento tipico di chi non accetta di essere, finalmente, minoranza nel Paese reale. Più perde consensi nelle urne, più cresce la sua furia giudicante.
Non combatte a viso aperto, preferisce colpire in modo subdolo, screditando moralmente chi osa sfidarla. Non cerca il confronto, ma la damnatio memoriae di tutto ciò che non rientra nel suo codice etico.
Nel tribunale invisibile della sinistra militante, il verdetto è sempre lo stesso: colpevole. Non importa se il “reo” abbia semplicemente espresso un’opinione o difeso una prospettiva diversa; l’eresia, per costoro, è già un crimine.
Nessuna possibilità di assoluzione, nessuna revisione. Chi viene bollato come “nemico del progresso” resta tale a vita. È una condizione senza appello, una condanna morale che precede ogni fatto.
Così si è arrivati a una distorsione patologica del dibattito pubblico: l’avversario non è più qualcuno con cui misurarsi, ma un soggetto da umiliare, rieducare o espellere.
Sui social, nei media, nelle università, la logica è la stessa: stabilire chi può parlare e chi no, come una casta sacerdotale che decide chi è puro e chi impuro.
È una patologia dell’anima collettiva, una forma di razzismo etico che separa i “giusti” dai “condannati”, secondo criteri di appartenenza ideologica e non di verità.
Questa pretesa superiorità morale non produce una società più giusta, ma un deserto. Un popolo spaccato, una partecipazione civile sempre più fragile.
L’odio ideologico, travestito da virtù, distrugge ogni terreno comune. È un’autocrazia morale, una dittatura della correttezza politica che impone penitenze e chiede confessioni pubbliche di colpa.
Quando attaccano Giorgia Meloni e il centrodestra accusandoli di vittimismo, non comprendono che è proprio la loro arroganza a rendere credibile quel vittimismo.
È la loro intolleranza sistemica a trasformarsi nell’alibi perfetto: il segno tangibile di un potere che non vuole competere, ma epurare. Non potendo più imporre la propria egemonia culturale, cercano di conservarla attraverso la delegittimazione dell’altro.
“Non potendo ucciderti, ti cancello” sembra essere la sintesi spaventosa di questa pulsione repressiva. Ti proibisco di esistere nel dibattito pubblico, ti privo della parola, ti processano a reti unificate. È questa la nuova Inquisizione, che utilizza la morale come arma di censura.
L’ultimo episodio, quello che ha travolto la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi, mostra in pieno questa dinamica.
Una donna di talento, colpevole solo di non aderire ai diktat politico-culturali della sinistra, è stata fatta bersaglio di un linciaggio mediatico e social senza precedenti.
Musicisti e giornalisti schierati, indignati professionali che gridano allo scandalo, collettivi militanti che ne chiedono la cancellazione.
Tutto questo non è “dibattito”: è odio puro, sistemico, ritualizzato. È lo sfogo di chi teme la libertà altrui perché mina la propria presunta superiorità morale.
Eppure, questo meccanismo di esclusione si sta ritorcendo contro i suoi stessi artefici. Ogni volta che un volto pubblico viene linciato in nome dell’ideologia, cresce lo sdegno di quella parte silenziosa del Paese che non accetta più il ricatto morale, la gogna e la censura.
L’Italia è ammalata di questa patologia: un odio etico che paralizza la libertà di pensiero e il senso stesso della democrazia.
Una società in cui esiste una casta di giudici morali e una massa di imputati per il semplice fatto di pensare diversamente non è libera, ma malata.
La guarigione potrà avvenire solo quando si tornerà a riconoscere la legittimità dell’altro, senza pretendere di rieducarlo o umiliarlo.
Fino ad allora, i predicatori del bene continueranno ad avvelenare i pozzi della convivenza civile, incapaci di comprendere che il primo passo verso la libertà è accettare il dissenso.
Il veleno che hanno sparso — mediatico, ideologico, moralistico — sarà il loro stesso boomerang. Perché chi pretende di cancellare l’altro finirà, inevitabilmente, per cancellare se stesso.