L'esterovestizione è la pratica illecita di trasferire la residenza fiscale di una società all'estero per sfruttare un regime fiscale più vantaggioso, senza un effettivo spostamento delle operazioni o dei centri decisionali. Ciò viola le norme antielusive del sistema fiscale italiano e può portare a sanzioni severe.
L'esterovestizione è strettamente correlata alla residenza fiscale di un'entità. Se la residenza formale di una società è all'estero, ma la sua attività e i suoi centri decisionali sono in Italia, la società viene considerata fiscalmente residente in Italia. Questa situazione crea una dissociazione tra la residenza reale e quella formale.
Il sistema tributario italiano utilizza specifiche norme per individuare la residenza fiscale, basandosi su elementi concreti che stabiliscono il legame della società con il territorio italiano.
Nel 2006, il Decreto Visco-Bersani ha introdotto la presunzione di residenza fiscale in Italia per società ed enti esteri, se:
Se un trasferimento fittizio di residenza viene accertato, la società viene considerata residente in Italia, con conseguenze fiscali che includono:
A partire dal 2024, la residenza fiscale delle società viene determinata secondo nuovi criteri, come stabilito dall'articolo 73, comma 3, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR):
I nuovi criteri mirano a evitare interpretazioni estensive del concetto di residenza fiscale, perseguendo solo i trasferimenti di residenza realmente fittizi. Si prevede che le future contestazioni si baseranno principalmente sulla direzione effettiva, lasciando alla gestione ordinaria un ruolo marginale.
Nel 2011, una società con sede nel Regno Unito ha ricevuto immobili situati in Italia attraverso un atto di conferimento, tassato in misura fissa come previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 131 del 1986. Nel 2014, l'Agenzia delle Entrate ha notificato alla società un avviso di liquidazione, imponendo un'aliquota proporzionale del 7% (ora 9%) sul valore degli immobili, sostenendo che la società operava solo fittiziamente all'estero e che la sua sede effettiva era in Italia.
Dopo un ricorso iniziale respinto dalla CTP, la CTR ha ribaltato la decisione a favore dei contribuenti, sostenendo che il fisco doveva dimostrare l'esterovestizione. L'Agenzia delle Entrate ha quindi presentato ricorso per Cassazione, basato su due motivi:
La Corte di Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, annullando la sentenza della CTR. La Corte ha richiamato l'art. 73, comma 5-bis, che prevede la presunzione legale di residenza fiscale in Italia per società che:
Nonostante questi requisiti mancassero, la Corte ha ritenuto la società residente in Italia in base all'art. 73, comma 3, del TUIR, secondo cui una società è considerata residente se ha la sede legale o la direzione effettiva o l'oggetto principale in Italia per la maggior parte dell'anno fiscale.
La Cassazione ha ribadito che l'assoggettamento della società alla normativa italiana non viola la libertà di stabilimento prevista dall'UE. La sentenza C-196/04 della CGUE distingue tra:
La Direttiva 2008/7/CE chiarisce inoltre che il potere impositivo compete allo Stato in cui si trova la sede di direzione effettiva al momento del conferimento.