Nel 1947 un ebreo di nome László Tóth, che precedentemente era riuscito a scampare alla morte durante il periodo di prigionia nel campo di concentramento di Buchenwald, emigra negli Stati Uniti per cercare un’occasione di riscatto. Tóth, stimato architetto ungherese del Bauhaus, aveva perso tutti i privilegi guadagnati grazie alla sua carriera durante la Seconda Guerra Mondiale a causa della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti. Strappato con violenza alla moglie Erzsébet, che si era convertita all’ebraismo da adulta per amore del marito, che credeva fosse stata uccisa nella città di Dachau, in Germania, ha affrontato un lungo viaggio per raggiungere suo cugino Attila a Philadelphia, in Pennsylvania.
Aiutando quest’ultimo a fabbricare dei pezzi d’arredamento per il suo negozio di mobili, riesce a farsi notare dal magnate Harrison Lee Van Buren che col tempo non soltanto si affeziona a lui, ma rimane anche impressionato dalle imponenti strutture brutaliste che Tóth aveva ideato e costruito in diverse città d’Europa. Harrison gli commissionerà poi la progettazione di un grandissimo centro ricreativo monumentale con sinagoga, biblioteca e sala ricevimenti da dedicare alla madre defunta. László vive per anni nella dépendance della tenuta degli Harrison per lavorare al progetto.
Nel 1953 riesce anche a ricongiungersi con la moglie, che in realtà era sopravvissuta durante la guerra, e con la nipote adolescente Zsófia, figlia della sorella di lui. Nonostante possa sembrare una storia a lieto fine, non pochi furono gli ulteriori drammi nella vita dell’architetto: la dipendenza da eroina sviluppata qualche anno prima dell’arrivo di Erzsébet in America, l’artrosi in stadio avanzato di quest’ultima, l’allontanamento della nipote incinta quando decide di trasferirsi in Palestina col marito. Nel corso degli anni subirà finanche uno stupro che metterà a dura prova il matrimonio e che lo farà sprofondare in depressione. Un’esistenza dolorosa, travagliata, drammatica, ma fortemente affascinante di un grande architetto e artista visionario che ha segnato per sempre il ‘900 con i suoi edifici rinomati in tutto il mondo.
O questo è quello che si potrebbe credere guardando “The Brutalist”, il nuovo film del regista americano trentaseienne Brady Corbet, presentato in anteprima alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il 1° settembre 2024. Benché sembri a tutti gli effetti un film biografico, soprattutto per le scene finali ambientate in Italia, è basato su una storia inventata di sana pianta. Sì, perché il protagonista in realtà non è mai esistito. O meglio, non un architetto ebreo che si chiamasse così. Ma leggendo questo nome non c’è qualcosa che vi suona familiare? Ebbene, László Tóth fu il criminale ungherese, naturalizzato australiano, che il 21 maggio del 1972 vandalizzò la Pietà di Michelangelo nella Basilica di San Pietro a Roma. Non oso immaginare quanto deve essersi diabolicamente divertito Corbet nello scrivere una sceneggiatura, insieme alla moglie Mona Fastvold, basata su un personaggio immaginario rubando le generalità di una figura storica realmente esistita, confondendo lo spettatore.
Il regista ha dichiarato di aver tratto ispirazione dalle opere dello scrittore trinidadiano Vidiadhar Surajprasad Naipaul e da quelle dello scrittore tedesco Winfried Sebald. Tant’è che il primo capitolo del lungometraggio si intitola “L’Enigma dell’Arrivo” come l’omonimo romanzo pubblicato nel 1987 da Naipaul. Prodotto in maniera indipendente e diviso in tre atti, primo tempo, secondo tempo ed epilogo, con un intervallo di quindici minuti, le riprese sono state girate insieme al direttore della fotografia Lol Crawley in formato VistaVision su pellicola 35 mm. Nonostante non si utilizzi più girare in VistaVision, per lo meno negli Stati Uniti, dagli anni ’60 la scelta è stata dettata da due fattori: anzitutto perché quello era il formato usato negli anni in cui è ambientata la pellicola e in secondo luogo perché, non distorcendo le riprese grandangolari, è perfetto per rendere al meglio le strutture architettoniche molto ampie.
Adrien Brody, sempre superlativo, qui interpreta magistralmente il ruolo principale ed è attualmente candidato ai prossimi Oscar come miglior attore protagonista. Se dovesse vincere questo per lui sarebbe il secondo Premio Oscar per aver impersonificato un ebreo durante gli anni della guerra. Difatti nel 2003 è già stato premiato nella medesima sezione con il film “Il Pianista”. Che dire, nonostante duri 215 minuti, “The Brutalist” scorre a ritmo abbastanza sostenuto e per quel che mi riguarda è decisamente un buon film. L’idea di farlo sembrare un biopic rende alla perfezione e devo dire che c’ero cascata anche io. Avrei però tagliato qualche scena superflua, perché tre ore e trentacinque minuti sono veramente troppe. Drammatica, intensa, intrigante, la storia mi ha catturata da subito. Merito anche e soprattutto di un personalissimo debole per Brody che ho sempre reputato molto affascinante. Splendida anche Felicity Jones nel ruolo di Erzsébet Tóth che ho trovato davvero bravissima. Tre stelle virgola nove su cinque.