Ai piedi dei monti Elburz sorge una città antica che non dista molto da un meraviglioso deserto, che illuminato dal cielo al tramonto appare come un dipinto. Passeggiando tra le strade cittadine dai vicoli si sente arrivare un profumo speziato di zenzero, senape, curcuma e cannella che ti avvolge e ti accarezza dandoti improvviso sollievo, come un vento fresco nel bel mezzo di un’estate insopportabilmente calda. Descritta così, chiudendo gli occhi, ti si figura davanti un paradiso in terra, ma quella città si chiama Teheran e per il volere di troppi uomini malvagi lei e il resto dell’Iran rappresentano un inferno avvolto da lingue di fuoco alte come i monti che li attraversano. L’estremismo religioso ha piegato e messo in ginocchio tutte le donne del Paese costringendole a vivere soffocando la loro individualità, la loro bellezza, la loro stessa vita rendendole tristi e disilluse, come principesse rinchiuse in un castello persiano.
Tra queste splendide vittime di un sistema ingiusto ci sono Najmeh (Soheila Golestani) e le sue figlie Rezvan (Mahsa Rostami), la maggiore, e Sana (Setareh Maleki), la piccola ribelle di casa. Il marito e padre Iman (Misagh Zare) sembra un uomo buono, diverso dalla maggioranza dei suoi connazionali. È appena stato promosso giudice istruttore e nei suoi grandi occhi bruni, sulla sua bocca serrata, nei suoi lunghi silenzi assorti, pare portare tutto il peso della sua coscienza devastata. Iman appare più evoluto del contesto che lo circonda: con le sue figlie è comprensivo, di manica larga, ben più di quanto non lo sia Najmeh, severa se pur affettuosa con quelle bambine ormai diventate grandi che ha cresciuto prendendosene cura con la stessa premura con la quale lo si farebbe con un meraviglioso giardino magico, sorto in mezzo all’aridità della sabbia distante dal mare.
Obbligate a indossare il velo ogni volta che lasciano le mura domestiche, per Rezvan e Sana, giovani donne in procinto di diventare adulte, coprirsi il capo a forza è diventato un gesto quasi insopportabile. Ma non hanno il coraggio di dirlo ad alta voce davanti ai genitori, obbediscono in silenzio intrappolando il loro malessere come un uccellino in gabbia. I tempi però stanno cambiando e le loro compagne di scuola e di università prendono sempre più parte alle rivolte e alle manifestazioni contro l’oppressione maschilista appartenente a quella parte della religione vecchia e meschina che non rappresenta più le nuove generazioni.
Le ragazze vogliono sentirsi libere e lottano a costo della loro stessa esistenza affrontando a viso aperto i poliziotti che le spogliano, le picchiano, le brutalizzano, le mutilano deturpandogli il volto, o addirittura le uccidono. E quando non le ammazzano le arrestano, chiudendole in cella. Iman, da giudice istruttore, si occupa proprio di questo: decidere se mandare a morte chiunque non rispetti le insensate leggi religiose di quel governo sadico e impietoso. E dunque, sarà davvero evoluto come sembra? O sarà disposto a sacrificare il suo amore per Najmeh, Rezvan e Sana in nome di un dio, creato dagli uomini, che non conosce libertà?
ll regista Mohammad Rasoulof non sembra conoscere la paura: le condanne plurime ricevute dal 2010 da parte della corte rivoluzionaria iraniana, a quanto pare, non gli sono bastate. E per fortuna oserei dire, perché è anche grazie a lui e alle sue opere che è possibile portare avanti una campagna di denuncia nei confronti delle brutalità commesse dal regime in Iran. Basti pensare all’Orso D’Oro che ha vinto nel 2020 al Festival di Berlino con “Il Male Non Esiste”, presentando al mondo intero una pellicola, suddivisa in quattro episodi, che ti costringe a osservare dritta in faccia la pena di morte. Ed ecco che il 24 maggio del 2024 l’ha fatto ancora, sfidando il suo stesso Paese con orgoglio: alla 77ª edizione del Festival di Cannes ha presentato “Il Seme del Fico Sacro”, il suo ultimo film girato clandestinamente per non essere fermato. Inutile dire che ci sono stati diversi tentativi di impedire a Rasouluf di esprimersi artisticamente finendo di girare questo lungometraggio drammatico che racconta la vita di un giudice istruttore colto da un’improvvisa paranoia maniacale nei confronti di sua moglie e delle sue figlie. Ma tant’è che, come un eroe dei fumetti, è riuscito pure a trasferire il film all’estero dal suo montatore un paio d’ore prima che un’ulteriore condanna sulla sua testa diventasse esecutiva.
Fatto sta che "Il Seme del Fico Sacro" è addirittura arrivato alle nomination come miglior film internazionale rappresentando la Germania (Stato che ne ha permesso la produzione) agli Oscar 2025. Non so a voi, ma a me tutto questo commuove con orgoglio e felicità che mi esplodono in petto se solo mi fermo a pensare a tutte le donne e alle vittime del regime iraniano. Ciò che mi rende meno felice è sapere che tutto il cast ha ricevuto pesanti intimidazioni e ripercussioni, così come anche le loro famiglie. L’attrice Soheila Golestani è stata addirittura arrestata per aver recitato senza indossare il velo e a tutt’oggi le è vietato lasciare il Paese. Ma cosa ne penso de “Il Seme del Fico Sacro”?
Dapprincipio questo film sembra la messa in scena di un gineceo intimo e raccolto, al di fuori del tempo e dello spazio, dove l’universo femminile sboccia come un fiore che si schiude, lasciandoti osservare il suo centro cavernoso che ricorda giustappunto una vulva. Il ruolo del marito Iman, mentre la trama si sviluppa, pare quasi marginale, esclusivamente accessorio. Sì, perché questa è una storia che parla alla femminile e ti racconta la prepotenza dell’uomo che ancora oggi vuole decidere com’è che una donna deve vivere e apparire, giudicando, anche solo attraverso l’estetica, il valore della sua morale. Rasouluf dunque, con grande calma, racconta di una quotidianità casalinga che serve a mescolare le carte, strappando al personaggio principale il suo ruolo di protagonista per donarlo a coloro le quali avrebbero dovuto fare da contorno all’interno della narrazione.
Di queste 2h e 47 minuti della personalità di Iman scopriamo poco e ciò che apprendiamo ci deriva dalle parole di sua moglie Najmeh, che ce lo fa conoscere come un individuo buono e ammirevole. Ma è verso l’epilogo che il regista inverte nuovamente le parti e sposta il focus su Iman, facendotelo conoscere rapidamente, ma a sufficienza per odiarlo. Credo sia questo il punto di forza di tutta la pellicola, farti affezionare a un uomo che nemmeno conosci per poi strappartelo via per sostituirlo con un mostro. E per fare questo ti ci fa legare osservandolo attraverso gli occhi innamorati di sua moglie e delle sue figlie. Perché per riuscire a spezzare la catena patriarcale bisogna avere il coraggio di condannare le azioni anche di chi amiamo, o di chi ci piaceva, altrimenti continueremo a giustificare in nome dell’affetto e tutto questo non avrà mai una fine. Un film necessario, non perfetto, ma qui i tecnicismi del cinema sono bel lontani da ciò che dobbiamo guardare davvero. Senza voto.