Guardando “L’Orto Americano”, il nuovo lungometraggio dello scrittore, sceneggiatore e regista Pupi Avati, presentato in anteprima, come film di chiusura, all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia lo scorso 7 settembre, è impossibile non pensare a Pietro Pacciani. Sì, perché in questo horror all’italiana c’è un killer che, esattamente come faceva il Mostro di Firenze, asporta i genitali delle donne che uccide. La storia, ambientata nel 1945 nella Bologna dell’immediato dopoguerra, vede protagonista un ragazzo, aspirante romanziere, interpretato dal giovane attore Filippo Scotti, afflitto da alcuni disagi psichici che lo inducono a pensare di poter parlare con gli spiriti dei suoi cari estinti. Ma in realtà, conoscendolo meglio, non lo definiresti pazzo o psicotico: è sempre molto lucido e ben orientato. Estremamente gentile, buono e disponibile con tutti, il suo problema sembra essere in verità l’eccessiva sensibilità che lo rende quasi fragile e incline alla chiaroveggenza. Quest’indole si sposa alla perfezione con l’immaginario dell’animo triste e tormentato da scrittore gotico. A stravolgere le sue disilluse giornate grigie ci sarà l’incontro casuale con un’ausiliaria dell’esercito americano: mentre il protagonista si sta facendo tagliare i capelli dal barbiere, una splendida ragazza di nome Barbara entrerà per chiedere delle informazioni e gli sguardi dei due si incroceranno, lasciando il primo affascinato e destabilizzato. Sentendosi da subito colto da un colpo di fulmine la cercherà a lungo, ma senza riuscire a trovarla. Passato un anno, e trasferitosi negli Stati Uniti per scrivere il suo libro d'esordio, una serie di bizzarre coincidenze faranno sì che conoscerà la madre della sua amata, scoprendo che Barbara è scomparsa in Italia. Riconducendo la sua sparizione a un possibile legame con l’assassino italiano che da qualche tempo sta mietendo vittime femminili, asportandone i genitali, farà rientro a Bologna per cercare di scoprire che fine ha fatto la fanciulla che gli ha rapito il cuore.
Pupi Avati in questo ennesimo lungometraggio, tratto da uno dei suoi romanzi, esplora nuovamente il cinema dell’orrore, come agli inizi della sua carriera. Girato interamente in bianco e nero, alcuni aspetti della regia ricordano le opere di Hitchcock. Diversi richiami alla poesia lirica di Bacchilide e Archiloco conferiscono all’intera narrazione un ulteriore pregio culturale. E allora cos’è che non funziona ne “L’Orto Americano”? Anzitutto la scarsa plausibilità di alcuni eventi. Nella sceneggiatura vi sono più punti inverosimili, che con molta difficoltà potrebbero verificarsi nella vita vera. E non mi riferisco tanto alla dinamica dei delitti, quanto ad alcuni accadimenti del destino. In secondo luogo ho trovato la recitazione di Filippo Scotti poco convincente, come se fosse ancora troppo acerbo per interpretare un ruolo del genere. Devo dire che la sua giovane età si percepiva tutta e non in senso positivo.
Mi spiace dover dire che non lo reputo un gran film, perché Avati in questo soggetto ha fatto più riferimenti a se stesso e alla sua esistenza, rendendola un’opera fortemente personale. Tra i tanti richiami, una su tutte l’abitudine di dialogare con i cari defunti davanti alle loro fotografie: lui stesso ha confessato di tenere su una parete di casa circa 200 foto di persone ormai trapassate, alle quali era affezionato quando erano in vita, e di parlare con loro tutte le sere. Però purtroppo non è di certo uno delle sue migliori pellicole. Tra le mie preferite c’è “Il Papà di Giovanna” con una splendida Alba Rohrwacher. Per “L’Orto Americano” due virgola nove stelle su cinque.