Quando si parla di pensioni in Italia, una delle convinzioni più diffuse – e sbagliate – è che sia stato Benito Mussolini, durante il ventennio fascista, a introdurre per la prima volta il sistema pensionistico nel nostro Paese. Questa narrazione, spesso rilanciata nel dibattito pubblico e politico, non trova però alcun riscontro nella realtà storica. Le origini delle pensioni italiane sono molto più antiche e affondano le radici nell’Italia liberale di fine Ottocento, ben prima dell’avvento del fascismo.
Dopo l’Unità d’Italia, la questione della previdenza sociale inizia a emergere come tema di rilievo, anche se in forme molto diverse da quelle attuali. Fino alla fine del XIX secolo, la tutela degli anziani e degli invalidi era demandata quasi esclusivamente alle famiglie, alle opere pie e alla beneficenza pubblica o privata. Solo alcune categorie di lavoratori statali e militari godevano di una qualche forma di pensione, sulla base di regolamenti ereditati dagli Stati preunitari e poi riordinati nel Testo Unico del Regio Decreto del 1895.
Il vero punto di svolta arriva nel 1898, sotto il governo di Antonio Starabba di Rudinì, quando viene istituita la Cassa Nazionale di Previdenza per l’Invalidità e la Vecchiaia degli Operai. Questa legge, la n. 350 del 17 luglio 1898, rappresenta il primo vero sistema pensionistico italiano rivolto ai lavoratori privati, in particolare agli operai. Si trattava di un’assicurazione volontaria: i lavoratori potevano iscriversi e versare contributi, integrati da un contributo dello Stato e, in alcuni casi, dei datori di lavoro. Il diritto alla pensione si maturava a 60 anni, dopo almeno 25 anni di contribuzione, e l’importo era calcolato in base ai versamenti effettuati.
Questa innovazione, spesso dimenticata, segnò l’inizio della previdenza sociale italiana, ben 24 anni prima dell’avvento del fascismo. Nei primi anni del Novecento, la copertura fu progressivamente estesa a nuove categorie di lavoratori grazie a ulteriori riforme, come quelle introdotte dal governo Pelloux nel 1899.
Un altro passaggio fondamentale avviene nel 1919, quando – con il decreto legge n. 603 del 21 aprile – viene introdotta l’obbligatorietà dell’assicurazione per la vecchiaia e l’invalidità per i lavoratori dipendenti. Questa riforma, proposta dal ministro Dante Ferraris, estende la tutela pensionistica a una platea molto più ampia e segna l’avvio di un sistema pubblico e obbligatorio di previdenza sociale, gestito dalla Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali (CNAS).
Quando Benito Mussolini e il regime fascista salgono al potere nel 1922, il sistema pensionistico italiano è già una realtà consolidata, almeno nelle sue forme fondamentali. Il governo Mussolini, attraverso il regio decreto del 30 dicembre 1923, n. 3184, si limita a rendere operativo e a perfezionare il sistema già esistente, convertendo in legge la normativa del 1919 e restringendo l’obbligatorietà ai soli lavoratori dipendenti tra i 15 e i 65 anni. Nel corso degli anni Trenta, il regime fascista interviene ulteriormente per perfezionare e coordinare la legislazione previdenziale, ma non introduce ex novo il sistema delle pensioni.
L’unica vera “novità” attribuibile al periodo fascista è la riorganizzazione e l’ampliamento degli enti previdenziali, non la creazione del sistema pensionistico in sé. L’istituzione dell’INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) avverrà solo nel 1933, come evoluzione delle casse precedenti, ma sempre all’interno di un percorso iniziato decenni prima.
Un’altra convinzione errata è che il fascismo abbia introdotto la pensione sociale, cioè quella destinata ai cittadini privi di contributi lavorativi. In realtà, la pensione sociale viene istituita soltanto nel 1969, a ventiquattro anni dalla morte di Mussolini, come strumento di sostegno universale per gli anziani in condizioni di bisogno. Nel dopoguerra, con la Costituzione del 1948, il diritto alla pensione diventa un principio fondamentale dello Stato sociale italiano, e il sistema viene progressivamente ampliato e riformato per includere nuove categorie di lavoratori e per adeguarsi ai cambiamenti demografici ed economici.
La narrazione secondo cui Mussolini avrebbe introdotto le pensioni in Italia è stata spesso utilizzata, soprattutto in ambito politico, per rivalutare l’eredità del fascismo, attribuendogli meriti che non ha. In realtà, la storia della previdenza sociale italiana è il frutto di un lungo percorso iniziato nell’Italia liberale, proseguito attraverso i governi del primo Novecento e solo successivamente riorganizzato dal regime fascista.
Come sottolineano storici e fonti ufficiali, basta consultare la documentazione dell’INPS o le principali ricostruzioni storiche per smascherare questa fake news. Le vere radici delle pensioni italiane sono da ricercare nelle riforme liberali di fine Ottocento e nelle conquiste sociali del primo Novecento, non nel ventennio fascista.