In una graziosa comunità di campagna, nella Borgogna francese, c’è una donna sulla settantina che sembra godersi gli ultimi anni che le restano, come sospesa con dolcezza nella quiete fiabesca che caratterizza i boschi e i campi che circondano la sua proprietà. Michelle (Hélène Vincent) un tempo risiedeva in un bell’appartamento a Parigi, ma ha poi deciso di lasciarlo alla figlia Valérie (Ludivine Sagnier) dove vive col suo piccolo Lucas (Garlan Erlos). Tra Valérie e Michelle c’è un rapporto teso come una corda di violino, intossicato dal risentimento della prima nei confronti dell’altra. Nonostante i ripetuti e instancabili tentativi di Michelle di risaldare la loro unione, cercando di continuo di mostrarsi come un buon genitore e una brava nonna, Valérie non riesce davvero a perdonarla: da sempre la detesta, incapace di dimenticare l’errore più torbido commesso dalla mamma. Michelle è un’ex prostituta e ha portato avanti l’attività di meretricio anche durante l’infanzia di Valérie. Ma adesso, fervente cattolica, è rinata accostandosi a Cristo come Maria Maddalena. Eppure la figlia, benché siano passati diversi anni da quando la madre svendeva le sue carni a poco prezzo, non è in grado di smettere di provare quella vergogna insopportabile che è per lei dolorosa come uno schiaffo a viso scoperto.
Durante un week-end però, cedendo alle insistenze della tanto odiata madre, Valérie accetterà di portarle Lucas per una breve vacanza da passare tutti insieme. Purtroppo uno sfortunato pasto a base di champignon appena raccolti rischierà però di uccidere proprio Valérie, perché Michelle senza accorgersene cuocerà anche dei funghi velenosi. Dopo un breve ricovero in ospedale la figlia riporterà Lucas a Parigi, strappandolo alla nonna e interrompendo bruscamente l’idillio. Michelle, terrorizzata che Valérie la denunci e che non le faccia più vedere il nipote, confiderà i suoi timori all’amica, ed ex collega, Marie-Claude (Josiane Balasko) la quale a sua volta ha un figlio, Vincent (Pierre Lottin), che è appena uscito di prigione dopo una condanna per piccoli traffici. Così Vincent, a conoscenza dell’accaduto, andrà a trovare Valérie per cercare di convincerla a non spezzare il legame tra il nipote e la nonna, ma qualcosa andrà storto.
Molte volte mi sono chiesta se è possibile guarire sul serio le ferite più dolorose che ci sono state inferte dai nostri genitori durante l’infanzia. Si sa, i bambini che crescono in contesti di abuso spesso sviluppano un’acredine e un risentimento, se pur del tutto giustificati, nei riguardi di chi li ha allevati nella maniera peggiore possibile. Ma per quanto quell’odio possa essere una conseguenza e la giusta punizione per atti sadici, immorali e scellerati commessi da chi dovrebbe proteggere, accudire e non annientare, nella maggioranza dei casi si rivela essere deleterio anzitutto per chi lo prova, divenendo altamente invalidante. E quando ho visto per la prima il trailer de “Sotto le Foglie”, il nuovo film del regista francese François Ozon, un brivido mi ha percorso la schiena, solleticandomi e risvegliando in me quelle domande sulle quali più e più volte mi sono indagata nel corso della mia esistenza.
La protagonista Michelle, interpretata dall’attrice Hélène Vincent, arrivata alla terza età sembra aver raggiunto una pace interiore che ha avuto il compito di assolvere tutti i suoi peccati perpetrati in gioventù facendo la squillo. Ma è giusto dare per scontato che a perdonarla siano anche gli altri, soprattutto la figlia costretta a crescere con quel peso e quell’imbarazzo insopportabile a devastarle la coscienza ancora acerba? Perché se da un lato converrebbe a ciascuno di noi dimenticare e andare avanti, assaporando con gioia gli istanti che la vita ci regala, è pur vero che è anche troppo facile sbagliare in modo grave e consapevole per anni per poi pretendere che quegli errori vengano condonati in primis dalle persone che abbiamo ripetutamente e scientemente distrutto col nostro egoismo. L’interessante sceneggiatura di questa pellicola, che si arrovella su siffatto dilemma morale, è stata scritta dal regista stesso insieme allo sceneggiatore Philippe Piazzo.
Certo è che, dopo aver imparato a conoscere Ozon con la sua Trilogia del Lutto (“Sotto la Sabbia” 2000, “Il Tempo che Resta” 2005 e “Il Rifugio” 2009), le aspettative erano ben più alte. Ciò che rovina l’intero lungometraggio è, ad esempio, la colonna sonora un po’ bislacca che lo fa sembrare d’improvviso uno spot pubblicitario di pannoloni per l’incontinenza o di pasticche per il colesterolo. Questo, più l’evidente (almeno per me) limite di Ozon di rendere al meglio nella suspense, ha guastato una trama dall’alto potenziale che ricorda in qualche vaga maniera “Match Point” di Allen. Non tanto per delle similitudini nella storia, che difatti non ci sono, quanto per l’ironia della sorte e la capacità di cogliere di riflesso le occasioni vantaggiose derivate da un crimine mostruoso. Anche se qui il dubbio sulla colpevolezza rimane fino all’ultimo (ma mica tanto…) e il possibile reato compiuto dal singolo si trasforma in una corale condivisione postuma, per coglierne tutti le giuste convenienze. Inoltre le apparizioni della figlia defunta alla madre rimandano un po’ a quella di Nola Rice a Chris, proprio in “Match Point”. Davvero un gran peccato, si poteva fare meglio. Due virgola nove stelle su cinque.