Sofia (Ginevra Francesconi) è una bellissima ragazza di appena diciassette anni. Figlia di Pietro (Stefano Accorsi), un agente immobiliare di successo, è cresciuta beneducata in un contesto facoltoso. Oltre a frequentare il liceo, sin da bambina pratica equitazione in un maneggio della capitale. La sua vita, a una prima occhiata superficiale, sembra quasi perfetta. Anche il fidanzato, un coetaneo suo compagno di scuola, pare esserle affezionato con immensa devozione. Sofia è minuta, pesa meno di cinquanta chili, è alta a malapena un metro e sessanta e ha due occhi azzurri talmente grandi e profondi, che spiccano a contrasto con la sua carnagione bianco latte, che pure da lontano ti illuminano come il bagliore d’un faro in mare aperto nel bel mezzo della notte. Una manciata di lentiggini ramate le colora il nasino piccolo e tondo, giusto sopra le sue morbide labbra di un rosa tenue. Una giovane donna dall’esistenza invidiabile che, almeno all’apparenza, ha tutto quel che serve per essere felice. A chi potrebbe far paura qualcuno dall’aspetto così angelico e desiderabile? Eppure Sara da anni porta in grembo un dolore insormontabile, che ha il peso di una roccia, che le strazia le carni e il petto cercandole il cuore a forza per trafiggerlo. Cinque anni fa ha perso la mamma dopo la dilaniante battaglia contro una malattia che l’ha consumata fino a ucciderla. Da quel momento, senza un adeguato supporto psicologico e pretendendo che andasse avanti nonostante tutto, ha iniziato a stringersi a suo padre come fossero attaccati da un cordone ombelicale, finendo entrambi soli e sospesi dal resto del mondo dentro a una bolla, tra dolore e negazione.
Proprio per questo il recente ritorno di Chiara (Thony) nelle loro vite, dopo essere stata all’epoca l’infermiera personale della madre di Sara, ha sconvolto gli equilibri già fragili e a tratti morbosi che si erano creati fra i due. Chiara adesso è la compagna di Pietro ed è entrata in casa a gamba tesa, come se le fosse dovuto, come se quelle mura domestiche le fossero sempre appartenute, senza calcolare la sofferenza di Sara che in quell’appartamento c’è cresciuta. I modi di Chiara, rapidamente, divengono giorno per giorno melliflui, dolciastri e insistenti nei confronti della figliastra, rendendo la sua presenza insopportabile e opprimente. Senza dubbio armata delle migliori intenzioni, non sembra però in grado di calcolare che esistesse un passato e un vissuto prima di lei, che aleggerà nella memoria di Pietro e di Sara fino alla fine dei loro giorni e che di certo non può essere spazzato via con delle moine e degli onnipresenti sorrisi snervanti. Anche Pietro, dal canto suo, forse trascinato dal bisogno di sentirsi di nuovo amato da una donna, spiritualmente e carnalmente, non è stato capace di mediare affinché questo ingresso nella quotidianità della figlia risultasse meno traumatico possibile. Dunque, in un crescendo di tensione e nervosismo, una banale discussione serale, davanti a un tagliere e un coltello affilato, in un attimo si trasformerà in un incubo irreparabile, che distruggerà le esistenze di tutti.
Devo ammettere che guardando i primi minuti de “Una Figlia”, il nuovo lungometraggio del regista romano Ivano de Matteo, ho avuto il terrore che mi aspettassero 103 minuti di pessima recitazione; la scena iniziale dell’omicidio è interpretata davvero male, alla stregua dei thriller per la TV mandati in onda su Rai 2 nei sabati sera d’estate. Ma, grazie Dio, il livello recitativo si riprende quasi subito e ho potuto tirare un sospiro di sollievo.
La storia, tratta dal romanzo d’esordio “Qualunque Cosa Accada” dello scrittore Ciro Noja, è di una crudeltà implacabile: un’adolescente uccide a coltellate la nuova compagna del padre, durante un impeto d’ira. Sara, diciassettenne giudiziosa, che non ha mai dato problemi, da cinque anni sopravvive al dolore straziane causato dalla perdita prematura della madre, per via di una malattia terminale. Aggrappatasi dunque al papà per non annegare nella sofferenza, quando lo vedrà legarsi sentimentalmente a quella che è stata l’infermiera della mamma, durante le cure palliative, si sentirà tradita e abbandonata. Come se non bastasse le imporrano anche una convivenza forzata con “l’intrusa”, nella stessa dimora dove Sara è nata e cresciuta, condividendo i momenti più felici e i più bui con la mamma, della quale ora le rimane soltanto un dolce ricordo. Aggiungiamoci pure i gemiti di piacere per nulla soffocati di Chiara, “l’altra”, che nel cuore della notte riecheggiano per tutto l’appartamento, con la povera Sara svegliata e infastidita dall’imbarazzo di una simile circostanza. Ecco, questa scena l’ho mal digerita risultandomi insopportabilmente indigesta.
Diciamo pure che il personaggio di Chiara non appare molto gradevole in generale per l’audacia di inserirsi, a pochi anni dalla morte di quella che era la madre e la moglie, in un contesto familiare fragile e sofferente, con la figlia del compagno in un’età delicatissima come quella dell’adolescenza. In tal senso però lo sbaglio più grosso è da imputare a Pietro, il papà, rappresentato da Stefano Accorsi, che ho trovato egoista e indelicato, uno stoccafisso che rimane immobile tra due fuochi, senza il coraggio di riprendere in mano la situazione. Non fraintendetemi, non sto in alcuna maniera giustificando il gesto della protagonista. Niente al mondo potrebbe far assolvere qualcuno da una simile colpa indicibile. Ma se è vero che un vedovo ha il diritto e la facoltà di rifarsi una vita amorosa, è altrettanto vero che quando si decide di diventare genitori si dovrebbe scegliere di mettere la tutela dei figli al primo posto, almeno fino a quando non raggiungano un’età adulta a sufficienza per capire. Non penso ci si debba annullare davanti ai propri bambini, però c’è modo e modo di inserire una nuova presenza nella loro vita, perché di fatto non sono responsabili degli errori e delle decisioni degli adulti. In secondo luogo sottovalutare l’importanza di un supporto psicologico in caso di gravi traumi, soprattutto se ci si aggiunge un ulteriore carico egoistico da metabolizzare, è uno sbaglio che un genitore non dovrebbe mai commettere. Quindi, questa disgrazia si poteva evitare? Assolutamente sì.
Ivano de Matteo, a due anni dall’uscita di “Mia”, proprio come in quest’ultimo e ne “I Nostri Ragazzi”, decide di raccontarci ancora il malessere giovanile vissuto degli adolescenti di oggi e le difficoltà paterne (in tutte e tre le pellicole si è focalizzato più sui padri che sulle madri) di elaborare e accettare gli aspetti raccapriccianti o incomprensibili della psiche della propria prole. Inoltre, in quasi tutti i suoi lungometraggi, c’è sempre un ragazzo o una ragazza e il loro dolore a fare da legante all’interno della trama. Qui si concentra in particolare sul mostrarci il contesto delle carceri minorili e il recupero dei detenuti, tagliando fuori in modo netto il giudizio morale. Però, anche nelle fasi di riabilitazione, non ti concede un attimo di respiro, lasciandoti col fiato sospeso per la paura che la protagonista possa commettere un altro errore dettato dall’impulsività. Il regista sceglie dunque un linguaggio crudo per arrivarti dritto come uno schiaffo a mano aperta. L’unica pecca che ho trovato, a parte la sopracitata scena dell’assassinio, è l’infarinatura iniziale troppo all’acqua di rose per farti comprendere la storia dei protagonisti. Si arriva alla tragedia in modo pressoché inaspettato. Bisognava, secondo me, mostrare più a fondo il crescendo di frustrazione che ha condotto all’epilogo mostruoso. Tre virgola sette stelle su cinque.