Viviamo in una cultura che celebra la giovinezza come unico modello legittimo di bellezza, vitalità e desiderabilità. Di conseguenza, quel corpo – il corpo che invecchia, che cambia, che si rilassa – deve essere messo da parte. Non deve mostrarsi e non deve disturbare. Il messaggio è implicito ma costante: dopo una certa età, il corpo deve scomparire dalla scena sociale, nascosto sotto abiti larghi, gesti misurati, silenzio. Deve rientrare in uno spazio di invisibilità, perché non è più considerato accettabile né desiderabile.
È esattamente quello che è accaduto con le recenti foto di Sophia Loren. Immagini che hanno mostrato un volto segnato dal tempo e un corpo fragile, ma ancora presente nello spazio pubblico. Per molti, un gesto di normalità. Per altri, motivo di ironia, commiserazione o critica spietata. Perché? Perché quel corpo, quel volto che muta quando invecchia, non dovrebbe più mostrarsi.
L’ageismo (dall’inglese to age-invecchiare) è una forma di discriminazione basata sull’età. Può colpire in ogni fase della vita, ma assume contorni più netti e sistemici quando si parla dell’età matura. Significa ritenere che dopo una certa età si debba essere meno attivi, meno visibili, meno “presentabili”. Che si debba parlare di meno, apparire meno, occupare meno spazio. A differenza di altre discriminazioni più riconosciute, l’ageismo è spesso normalizzato, interiorizzato, persino giustificato. Lo troviamo nei media, nella pubblicità, nei luoghi di lavoro, nei rapporti interpersonali. Ed è una forma di esclusione destinata, prima o poi, a colpire tutti.
All’interno dell’ageismo, una delle forme più evidenti – e meno denunciate – è la discriminazione del corpo che invecchia. Il body shaming può riguardare diverse tipologie di persone, nel caso dell’ageismo è diretto verso i corpi non più giovani. Non si tratta solo di rughe o capelli bianchi, ma dell’intera rappresentazione fisica delle persone oltre una certa età, che viene trattata come un fastidio estetico o come qualcosa da correggere, ridurre, celare. Chi mostra con naturalezza i segni del tempo viene spesso accusato di trascuratezza, mentre chi si affida alla chirurgia estetica viene deriso per l’artificio. Insomma, invecchiare in un corpo visibile è sempre sbagliato.
È il paradosso del nostro tempo: tutti vogliono vivere a lungo, ma nessuno vuole vedere cosa significa davvero. Il caso recente di Sophia Loren Il caso Sophia Loren è emblematico: una donna che per decenni è stata celebrata per la sua bellezza, e che oggi – semplicemente esistendo col suo aspetto reale – diventa bersaglio di commenti impietosi. Non per quello che ha fatto, ma per il modo in cui appare o, ancora peggio, perché semplicemente appare.
Sfogliando tra i commenti alla foto dell’attrice, che si mostra mentre tende la mano al cantante Albano, si legge “Quel foulard in testa la trasforma in peggio”, “Mi dispiace rivederla così trasformata”, “Ai suoi tempi era una bella donna ma adesso la cosa è cambiata mi fa tristezza”, “Così esposta ha poca dignità”, “Coraggiosa per mostrarsi com’è”. Si parla insomma di trasformazione peggiorativa, si associa la dignità al semplice mostrarsi col viso segnato dall’età e senza i capelli folti e voluminosi, si parla di coraggio nell’esporsi. Mostrarsi, esistere, non dovrebbe essere un atto di coraggio.
Albano si dice “furioso” perché quelle foto erano private e tali sarebbero dovute restare. Invece sono state diffuse forse – ci permettiamo qui un briciolo di malizia – anche per provocare lo shock sociale davanti al volto di una donna di novant’anni da sempre considerata un’icona di bellezza e che, secondo i canoni attuali, non lo è più.
Per le donne, il body shaming legato all’età è ancora più violento. Alla pressione sociale sulla bellezza eterna si somma quella sulla castigatezza: se sei giovane puoi mostrare il corpo, ma se invecchi devi coprirti. Gambe, collo, spalle, braccia, ginocchia, décolleté: tutto ciò che un tempo era considerato un valore diventa inadeguato, fuori luogo, indecoroso o addirittura osceno. Il fenomeno non colpisce solo le ultraottantenni ma inizia dopo i 50/60 anni, quando il corpo femminile inizia inevitabilmente a cambiare a seguito delle modifiche ormonali.
Una donna matura che osa mostrarsi rischia sempre il biasimo: è “ridicola”, “fuori tempo”, “non sa stare al suo posto”. E il risultato è una rimozione culturale del corpo femminile maturo.
Si inizia a sentirsi perse, fuori posto, inadeguate. Si interiorizza l’idea che sia meglio sparire un po’ per volta: smettere di mettersi il costume, evitare i selfie, rinunciare a un vestito che piace “per non dare nell’occhio”. Per molte donne, questo processo è devastante. Ogni segno del tempo diventa un errore da correggere o da nascondere. Il diritto al piacere, all’erotismo, alla visibilità viene progressivamente negato. Il corpo maturo smette di essere soggetto e diventa oggetto di esclusione.
Nel nostro paese il tema dell’ageismo è ancora largamente ignorato. Eppure in Italia l’età media è altissima. Non se ne parla nelle scuole, né nei media, né nella politica, resta un fenomeno invisibile. Tuttavia l’impatto è enorme: discriminazioni lavorative, solitudine, isolamento, problemi di salute mentale. L’ageismo non è solo una questione estetica: è un problema sociale, culturale e relazionale. È un modo per dire che, dopo una certa età, non sei più rilevante, e dunque non sei più autorizzato ad aver diritto alla bellezza, al desiderio, all’espressione e all’esistenza.
Invecchiare non è una colpa bensì uno dei maggiori privilegi che abbiamo.
A cura di Simona Ledda