La pandemia ha lasciato tracce profonde nella nostra vita quotidiana. Molto più profondo di quanto inizialmente avessimo immaginato. Se da un lato ha trasformato il modo di lavorare, studiare e comunicare, dall’altro ha inciso in modo quasi invisibile – ma radicale – sul nostro modo di percepire il tempo.
Il lockdown, la sospensione delle attività e l’isolamento hanno rotto gli schemi con cui misuravamo le giornate. Dal tempo scandito dagli impegni siamo passati al tempo sospeso, dilatato, quasi immobile. E anche dopo il ritorno alla normalità, quella percezione è rimasta, modificando la nostra relazione con i ritmi, priorità e presenza.
Nei mesi di lockdown, il tempo ha smesso di avere contorni precisi. Senza spostamenti, senza orari esterni a guidare la giornata, tutto è diventato fluido: lavoro, sonno, pasti e svaghi si sono mescolati. Molti hanno raccontato di non ricordare più il giorno della settimana, di provare una sensazione di “eterno presente”. Secondo numerosi psicologici, l’assenza di stimoli nuovi ha ridotto la capacità del cervello di immagazzinare ricordi significativi.
E quando la memoria si blocca, il tempo sembra scorrere più velocemente e più lentamente allo stesso tempo: un paradosso che molti hanno sperimentato. Il tempo non è solo una misurazione: è emozione. Durante la pandemia, ansia e incertezza hanno alterato la nostra percezione temporale. Le giornate più stressanti sembravano infinite, mentre settimane intere passavano senza che ce ne accorgessimo.
In psicologia, questo fenomeno si chiama distorsione temporale: quando le emozioni sono forti, il tempo cambia forma. E il periodo della pandemia è stato un laboratorio gigantesco di questi cambiamenti percettivi.
La sospensione del mondo ha costretto tutti a rallentare. Con meno impegni, meno spostamenti e meno “rumore”, molte persone hanno riscoperto attività dimenticate: cucinare lentamente, leggere, fare passeggiate, osservare il cambiamento delle stagioni dalla finestra. Questo rallentamento forzato, per quanto faticoso, ha riportato in superficie un bisogno umano che da anni veniva soffocato dalla frenesia: il diritto alla lentezza.
Prima della pandemia, il tempo libero veniva spesso vissuto come un’occasione da ottimizzare: imparare qualcosa, lavorare su sé stessi, fare di più. Improvvisamente, non c’era più “di più” da fare. E molte persone hanno iniziato a vivere il tempo non come una risorsa da sfruttare, ma come uno spazio da abitare. Il rallentamento ha messo in crisi il mito dell’iper-produttività: non tutto deve essere utile, monetizzabile, performativo. Esistono attività che nutrono il benessere semplicemente perché permettono di esserci.
Con il ritorno alla normalità, abbiamo riscoperto quanto sia importante essere fisicamente presenti: sentire gli ambienti, gli odori, i movimenti, le distanze. La pandemia cu ha ricordato che il corpo non è un dettaglio della comunicazione, ma un linguaggio. E che il tempo vissuto insieme è diverso dal tempo condiviso su uno schermo. Se prima eravamo abituati a riempire ogni minuto, ora molti preferiscono ricercare tempo più intenzionale, più lento, più “pieno”.
Una cena senza distrazioni, una passeggiata senza meta, un pomeriggio senza appuntamenti sembrano oggi più preziosi di prima. La pandemia ha insegnato che il tempo non è solo quantità, ma qualità: ciò che conta non è accumulare esperienze, ma viverle davvero.
La pandemia ha cambiato per sempre la nostra idea di tempo. Ci ha mostrato la fragilità del futuro, il valore della lentezza, l’importanza della presenza. Ci ha insegnato che il tempo non è solo ciò che scorre, ma ciò che viviamo, ricordiamo e sentiamo. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di un tempo che non ci travolga, ma che ci accompagni: un tempo umano, fatto di presenza reale, relazioni autentiche e ritmi sostenibili.
A cura di Francesca Labrozzi
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