Una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 94/2025) apre la strada a un possibile superamento dei limiti attuali sulle pensioni contributive, segnando un passo importante verso una pensione minima garantita per tutti.
Una buona notizia, vero? Ebbene, la Corte ha annullato il divieto di integrazione al minimo per la pensione di invalidità previdenziale dei cosiddetti contributivi puri, lasciando aperta la possibilità che lo stesso principio possa essere applicato ad altre categorie di pensioni.
In questo articolo, vediamo come funziona la pensione minima e cosa potrebbe eventualmente cambiare con la sentenza della Corte Costituzionale.
In Italia non esiste una pensione minima "in senso stretto". Sì, c’è una sorta di assegno molto basso che comunemente viene chiamato così, ma in realtà si tratta dell’integrazione al trattamento minimo, una sorta di importo aggiuntivo.
Questa misura, però, non vale per tutti: ne sono esclusi i cosiddetti contributivi puri, cioè coloro che hanno iniziato a versare contributi dopo il 1° gennaio 1996.
Per questi soggetti è previsto l’assegno sociale, che garantisce alcune agevolazioni:
Tuttavia, queste misure non bastano a compensare l’esclusione dall’integrazione al minimo, soprattutto per chi percepisce assegni molto bassi e ha alle spalle una carriera lavorativa discontinua o penalizzata.
Le cose, però, potrebbero presto cambiare. Un primo passo è stato fatto con la sentenza n. 94/2025 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto di integrazione al minimo per chi percepisce una pensione di invalidità con contributi versati solo nel sistema contributivo.
L’Inps aveva sostenuto che esistono già strumenti alternativi, come l’assegno sociale, ma la Consulta ha chiarito che questo sostegno è disponibile solo per gli over 67. Al contrario, la pensione di invalidità può essere necessaria anche in età lavorativa.
Inoltre, chi è invalido spesso non riesce a lavorare abbastanza per maturare una pensione dignitosa, motivo per cui l’integrazione al minimo diventa essenziale.
Al momento, la sentenza riguarda solo le pensioni di invalidità e non si estende automaticamente agli altri trattamenti contributivi. Un altro limite è l’assenza di strumenti simili per chi ha maturato solo cinque anni di contributi, come avviene per alcune pensioni di vecchiaia ridotte.
Tuttavia, il fatto che la Corte non si sia fermata alla semplice analisi delle misure assistenziali esistenti lascia aperta la possibilità di ulteriori sviluppi, riaccendendo il dibattito sull’equità del sistema pensionistico italiano e sulla necessità di tutelare chi, pur avendo versato contributi, riceve pensioni troppo basse.
Secondo la Corte, la differenza di trattamento tra chi ha maturato la pensione con il sistema retributivo e chi lo ha fatto con quello contributivo non ha una giustificazione ragionevole.
Il caso preso in esame riguardava una pensione di invalidità, ma il principio espresso potrebbe essere esteso anche ad altri trattamenti pensionistici, soprattutto se il sistema attuale non riesce a garantire un reddito minimo vitale.
Sebbene la sentenza non abbia effetto automatico su tutte le pensioni contributive, rappresenta un precedente giuridico di grande rilievo.
Potrebbe aprire la strada a nuovi ricorsi alla Corte Costituzionale, oppure stimolare un intervento diretto del legislatore per correggere le attuali disuguaglianze del sistema.
In ogni caso, il messaggio è chiaro: il principio di equità deve tornare al centro delle politiche previdenziali italiane. E garantire un reddito minimo dignitoso a ogni pensionato è il primo passo in questa direzione.