I lavoratori guardano all’uscita dal mercato del lavoro, mettendo sul piatto diverse ipotesi di pensionamento, inclusa la pensione di vecchiaia a 66 anni. Sono infatti molte le domande del tipo: “Posso andare in pensione a 66 anni?”. Il tempo passa, gli anni pure, e l’orizzonte previdenziale si allunga inasprendo i requisiti per l’accesso alla pensione. È normale, quindi, che il “66” sia rimasto nell’immaginario collettivo come un’età utile per il pensionamento.
La verità, però, è che oggi la pensione di vecchiaia ordinaria non si ottiene più a 66 anni, ma a 67, e resterà così fino al 2026. Per capire da dove nasce questa confusione bisogna fare un passo indietro, ripercorrere la storia della riforma e vedere quali sono le eccezioni ancora in vigore.
Le modifiche più incisive del sistema previdenziale – e quelle più radicate nella memoria collettiva – riguardano la riforma Fornero del 2011, più precisamente l’articolo 24 del decreto-legge 201/2011, poi convertito nella legge 214/2011.
Fu in quel contesto normativo che venne fissata la soglia dei 66 anni di età come requisito centrale per l’accesso alla pensione di vecchiaia. Contestualmente, l’età pensionabile fu uniformata e collegata alla speranza di vita.
Per diversi anni questo è stato il requisito anagrafico per il trattamento di vecchiaia, fino al successivo innalzamento a 67 anni.
Da allora, l’età minima si muove in base agli indicatori ISTAT sull’aspettativa di vita. Il meccanismo è chiaro: se viviamo più a lungo, si allunga anche il periodo lavorativo.
La pandemia ha inciso in modo diretto sulla speranza di vita: nel 2020, come riportato da Scienza in rete, l’indicatore è calato sensibilmente rispetto al 2019. Questo arretramento ha interrotto il trend di crescita che normalmente porta ad aggiornare l’età pensionabile.
Nei ricalcoli biennali, infatti, non è emerso alcun incremento da trasformare in nuovi requisiti.
L’INPS ha chiarito che per i bienni 2021–2022 e 2023–2024 non sarebbero scattati aumenti, trattandosi di un effetto automatico del meccanismo normativo.
Secondo l’INPS servono 67 anni di età e almeno 20 anni di contribuzione. Un decreto ministeriale del 18 luglio 2023, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ha stabilito che fino al 31 dicembre 2026 non ci saranno aumenti dei requisiti.
La stessa INPS, con la circolare n. 23 del gennaio 2025, ha confermato che i lavoratori possono pianificare la loro uscita contando su questo dato.
In altre parole, chi andrà in pensione nel 2025 o nel 2026 dovrà avere 67 anni compiuti e 20 anni di contributi effettivi.
Come si legge nei documenti normativi, la risposta è no. Tuttavia, è possibile farlo tramite la totalizzazione nazionale. Con questo istituto, chi ha carriere frammentate può maturare la pensione di vecchiaia a 65 anni con almeno 20 anni complessivi di contributi.
La legge prevede una finestra di 18 mesi: di fatto, quindi, l’uscita reale avviene intorno ai 66 anni e mezzo.
Ecco perché si sente ancora parlare della pensione a 66 anni, come riportato da Investire Oggi. Non si tratta però della pensione di vecchiaia ordinaria, ma di un canale speciale.
Un’altra ragione per cui il requisito di 66 anni continua a circolare riguarda la pensione anticipata e le deroghe per chi svolge lavori gravosi o usuranti.
In questi casi si può uscire prima rispetto ai 67 anni, ma con requisiti contributivi più elevati. Non si tratta, tecnicamente, di pensione di vecchiaia: sono strumenti diversi, con logiche e finalità specifiche, che vanno valutati caso per caso.
Dal 1° gennaio 2027, salvo proroghe, tornerà in funzione il meccanismo di adeguamento alla speranza di vita introdotto dalla riforma Fornero.
L’età pensionabile potrà salire oltre i 67 anni. Alcuni studi parlano di un possibile aumento a 67 anni e 3 mesi, ma il dato ufficiale sarà fissato da un nuovo decreto ministeriale basato sui dati ISTAT aggiornati.
Chi oggi ha 60 o 61 anni e sta programmando il proprio futuro deve quindi tenere conto che nel 2027 i requisiti cambieranno e che la pensione potrebbe slittare di qualche mese.