Lo sciopero generale indetto da CGIL e USB a sostegno della popolazione di Gaza e degli attivisti della Flotilla è stato giudicato illegittimo dalla Commissione di garanzia. Una pronuncia che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto chiudere il dibattito, e invece lo ha amplificato.
Non è bastata la freddezza istituzionale della presidente del Consiglio: a catalizzare l’attenzione ci ha pensato il vicepremier Matteo Salvini, che ancora una volta ha scelto di legare il suo profilo politico a una narrazione di ordine pubblico, contrapposta alle ragioni della piazza.
Non si è trattato di un passaggio marginale. La protesta, nata per denunciare la guerra a Gaza e l’arresto degli attivisti in acque internazionali, è stata ridotta a questione disciplinare. Il diritto allo sciopero, che pure la Costituzione riconosce, è stato interpretato dal ministro come una concessione da meritare, non come uno strumento da esercitare.
La tensione tra diritto e potere politico si è così fatta evidente, con un linguaggio che sposta il discorso dal piano dei contenuti a quello della colpa.
E mentre il Paese si interrogava sulla legittimità di una mobilitazione per la pace, Salvini ha colto l’occasione per mostrare il volto del “moderato inflessibile”: niente precettazione, ma l’avvertimento che la pazienza non durerà a lungo.
Una linea ambigua, che da un lato ostenta apertura, dall’altro minaccia sanzioni esemplari.
Salvini ha rivendicato di non aver fatto ricorso alla precettazione, presentando la scelta come gesto di fiducia verso i lavoratori e di responsabilità verso il Paese:
Il tono apparentemente conciliante non nasconde il sottotesto: lo sciopero è illegittimo e i sindacati stanno giocando con la pazienza del Governo. Nella narrazione del ministro, la non-precettazione diventa una concessione personale, un atto di magnanimità che esige riconoscenza. Non un diritto garantito, ma un credito concesso, che potrà essere revocato in futuro.
A rendere ancora più evidente l’impostazione punitiva sono state le parole successive. Salvini ha elencato i numerosi scioperi già proclamati entro l’anno, avvertendo che la disponibilità mostrata questa volta non sarà replicata:
Il messaggio è inequivocabile: o i sindacati accettano di muoversi entro i confini tracciati dal ministro, oppure scatteranno misure drastiche.
La fiducia non è qui un valore condiviso, ma un’arma retorica: chi non rientra nell’ordine rischia di essere bollato come irresponsabile, se non come nemico dell’Italia.
Accanto al linguaggio della fiducia, Salvini ha rilanciato con quello dei risarcimenti, trasformando il conflitto sociale in una questione di bilanci economici:
Si tratta della consueta logica del “chi rompe paga”, applicata non agli scontri o ai danni materiali, ma al semplice esercizio di un diritto costituzionale.
La protesta non viene discussa sul piano politico o sociale, ma trasformata in un atto di vandalismo finanziario, da punire con sanzioni proporzionate ai presunti “miliardi di euro” persi dal Paese.
In questo modo, Salvini sposta ancora una volta il dibattito: la questione di Gaza e degli attivisti della Flotilla scompare, sostituita da un calcolo contabile e da un atto d’accusa contro i sindacati.
La piazza che chiede la pace diventa, nella sua narrazione, un gruppo di sabotatori che attentano al benessere economico della nazione. È un ribaltamento che dice molto più della linea politica del ministro che dello sciopero stesso.
Le parole del ministro non sono rimaste senza replica. Dal Partito democratico sono arrivate risposte durissime: Andrea Casu ha accusato Salvini di “bloccare l’Italia ogni giorno con la crisi dei trasporti”, ricordando che i veri danni per i cittadini non si verificano solo durante gli scioperi.
Il deputato dem Marco Simiani ha parlato del “peggior ministro dei Trasporti della storia”, colpevole di usare il proprio ruolo per fare campagna elettorale anziché risolvere i disservizi.
La segretaria Elly Schlein, in piazza a Roma, ha infine ribadito che “l’Italia è migliore di chi la governa”, rivendicando il diritto di manifestare per la pace.