L’Italia si è trovata nuovamente divisa di fronte allo sciopero generale del 3 ottobre 2025, indetto in solidarietà con Gaza.
Una giornata che, nelle intenzioni degli organizzatori, doveva richiamare l’attenzione su una crisi umanitaria ma che, nella lettura dei detrattori, ha assunto i contorni di un atto politico diretto contro il governo.
La discussione non riguarda soltanto l’opportunità dello sciopero, ma investe anche la sua legittimità giuridica, i costi economici e la funzione dei sindacati nella società italiana.
Il primo bersaglio delle critiche è stato il carattere “illegittimo” dello sciopero. Secondo il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, l’azione sarebbe stata dichiarata tale dalla Commissione di garanzia sugli scioperi a causa del mancato preavviso, e chi l’ha organizzata dovrebbe risponderne direttamente.
Salvini ha evocato la necessità di una sanzione “equiparata al danno” causato ai cittadini, sostenendo che un milione di italiani non ha potuto prendere il treno a causa della mobilitazione.
Il vicepremier leghista ha rilanciato l’idea di una revisione della legge del 1990 per introdurre sanzioni personali a carico di singoli e organizzazioni sindacali, sottolineando che la legalità non può essere sacrificata sull’altare del dissenso.
La Commissione, per voce della presidente Paola Bellocchi, ha confermato il problema del preavviso, lasciando intendere che l’onere della responsabilità ricade sugli organizzatori.
Questo punto ha alimentato un dibattito su chi debba farsi carico dei costi di un giorno di paralisi nazionale: i sindacati che proclamano lo sciopero o lo Stato che tutela il diritto alla protesta.
Il governo e le forze del centrodestra hanno accusato apertamente i sindacati di strumentalizzare la causa palestinese per fini interni. Giorgia Meloni, durante il Consiglio dei ministri, ha chiesto di conoscere il costo effettivo della mobilitazione, lasciando intendere che spiegherà agli italiani il “vero motivo” dell’iniziativa.
Secondo il racconto governativo, l’obiettivo reale sarebbe quello di “dare una spallata” all’esecutivo, dopo aver fallito nelle urne. Il ministro Adolfo Urso ha espresso il timore che le finalità della manifestazione vadano oltre l’attenzione per Gaza, mentre il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri ha definito “inaccettabili” le minacce rivolte a esponenti del governo da parte di alcuni manifestanti.
Dalla Lega, Simonetta Matone ha parlato apertamente di “obiettivo di rivolta sociale” e Claudio Durigon ha accusato la CGIL di svilire la storia del sindacato.
La narrazione del centrodestra dipinge dunque la mobilitazione come un atto “scellerato e spregiudicato” di una sinistra “ideologicamente armata” che mira più a destabilizzare il Paese che a sostenere la popolazione palestinese.
Le critiche non provengono soltanto dalla maggioranza. Matteo Renzi, alla Leopolda, ha suggerito che il dibattito pubblico sia viziato dall’agenda politica, osservando che molte crisi umanitarie – come quella dei musulmani in Birmania o dei cristiani in Nigeria – non ricevono la stessa attenzione di Gaza.
Carlo Calenda, invece, ha puntato il dito contro la stampa, accusando la Repubblica di difendere Landini mentre tace sulla chiusura delle fabbriche da parte dell’editore Elkann.
Le dichiarazioni dei leader politici evidenziano come lo sciopero del 3 ottobre sia diventato un terreno di scontro ideologico più che un momento di riflessione collettiva sulla guerra.
Maurizio Landini, segretario della CGIL, ha difeso la protesta come “atto di solidarietà” e ha accusato Salvini di ricorrere a “minacce” contro i lavoratori, sostenendo che l’intento non era attaccare il governo italiano ma denunciare la complicità dell’Italia nel conflitto.
L’opinione pubblica resta divisa: per alcuni si tratta di un diritto sacrosanto, per altri di un abuso che danneggia i cittadini più fragili.