Il concordato preventivo biennale 2025-2026 parte con numeri deludenti. A fronte di una platea potenziale di oltre 2,6 milioni di partite IVA, sono state appena 40.000 le adesioni registrate.
Un risultato ben lontano dalle aspettative, che riaccende il dibattito sull’efficacia dello strumento e sulle conseguenze per il taglio dell’Irpef promesso dal governo.
Non è bastata nemmeno la campagna promozionale lanciata negli ultimi giorni prima della scadenza, né la possibilità di accedere a benefici fiscali per chi aderisce al concordato.
I dati confermano il poco interesse verso la misura, già definita da molti come un vero e proprio flop.
A pesare sul risultato c’è anche un cambiamento importante rispetto allo scorso anno: l’esclusione dei contribuenti in regime forfettario, che nel 2024 potevano aderire al concordato per un solo anno.
Allora le adesioni furono circa 584.000, un numero molto più alto, sebbene considerato comunque insoddisfacente.
Quest’anno la possibilità è stata riservata a chi utilizza il regime ordinario di contabilità e ha un indice di affidabilità fiscale (ISA) elevato. Proprio per questo, tra chi ha aderito si riscontra in media un punteggio ISA più alto.
Un dato prevedibile: chi è più "affidabile" agli occhi del Fisco paga meno tasse con il concordato, perché il reddito presunto calcolato è più vicino a quello effettivo dichiarato in passato.
Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha chiarito che non ci sarà alcuna proroga dei termini di adesione, scaduti il 30 settembre. Tuttavia, lo stesso era stato dichiarato anche l’anno scorso, salvo poi riaprire i termini pochi giorni dopo.
Ecco perché molti osservatori restano cauti e non escludono che il governo possa rivedere la decisione anche per l’edizione 2025-2026.
Un altro dato rilevante è che quest’anno non sono arrivate richieste ufficiali di proroga dai commercialisti, a differenza di quanto avvenne nel 2024. Questo potrebbe essere il segnale di un minore coinvolgimento della categoria, o della percezione che la misura non risponda alle reali esigenze dei professionisti e delle imprese.
Il vero problema è che il concordato preventivo doveva servire a finanziare il taglio dell’Irpef, attraverso un aumento delle entrate derivante dalla emersione del “non dichiarato”.
Ma con così poche adesioni, il gettito sarà ben al di sotto delle attese, e questo potrebbe mettere a rischio gli interventi previsti nella prossima manovra.
Il governo dovrà affrontare il tema già nei prossimi giorni e anche dopo la discussione del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp), base per costruire la Legge di Bilancio 2025.
Secondo le indiscrezioni, il taglio Irpef potrebbe essere ridotto rispetto alle promesse iniziali. Rimarrebbe solo la riduzione dell’aliquota del secondo scaglione, che passerebbe dal 35% al 32%. L’altra proposta, ovvero l’estensione del secondo scaglione fino a 60.000 euro di reddito, sembra ormai accantonata.
Intanto si fanno strada proposte alternative, come quella di rimodulare gli scaglioni Irpef in base all’inflazione, per evitare il cosiddetto “fiscal drag” (o drenaggio fiscale), che penalizza chi riceve aumenti nominali di reddito che non corrispondono a un reale miglioramento del potere d’acquisto.
Questa soluzione consentirebbe di proteggere i redditi medio-bassi, anche in assenza di un taglio strutturale delle aliquote, e potrebbe diventare centrale nella prossima Legge di Bilancio, soprattutto se mancheranno risorse sufficienti.
Il flop del Concordato preventivo biennale conferma le difficoltà di uno strumento che, almeno finora, non ha convinto né i contribuenti né i professionisti.
Con numeri così bassi, è difficile pensare che possa sostenere le riforme fiscali promesse, a cominciare dal taglio dell’Irpef.
Ora spetta al governo decidere se insistere su questa strada, magari correggendo alcune criticità, o puntare su soluzioni alternative per raggiungere gli obiettivi di semplificazione e riduzione della pressione fiscale.