Il 22 settembre e il 4 ottobre le piazze italiane si sono riempite come non accadeva da tempo.
Studenti, sindacati, associazioni e semplici cittadini sono scesi in strada per chiedere la fine della guerra a Gaza, per dire che la pace non può essere solo una parola di circostanza.
C’erano cortei colorati, canti, striscioni, discussioni accese ma pacifiche: un Paese che tornava a farsi sentire, con emozione e con civiltà.
In quelle stesse settimane, il Parlamento ha iniziato a discutere un disegno di legge che parla di tutt’altro, ma che inevitabilmente incrocia quel clima: il ddl n.1627, presentato dal senatore Maurizio Gasparri, “per il contrasto all’antisemitismo e per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA”.
Le proteste di settembre e ottobre hanno messo al centro un tema che la politica italiana spesso evita: la posizione del nostro Paese nei confronti del conflitto israelo-palestinese.
La legge in discussione, invece, nasce da una preoccupazione diversa — quella di garantire tutele più forti contro ogni forma di odio antiebraico.
Sono due movimenti diversi, ma nello spazio pubblico finiscono per incontrarsi: da un lato la richiesta di libertà di espressione e solidarietà internazionale, dall’altro la necessità di difendere la memoria e prevenire il razzismo.
Il testo propone che l’Italia adotti formalmente la definizione di antisemitismo elaborata dall’IHRA, già accolta da diversi Paesi europei.
Include inoltre modifiche all’articolo 604-bis del codice penale, che punisce la propaganda e l’istigazione all’odio razziale: la novità consiste nell’estendere le aggravanti anche a chi neghi “il diritto all’esistenza dello Stato di Israele”.
Su questo punto si concentra gran parte del dibattito: per alcuni è un passo avanti nella tutela delle comunità ebraiche e nella lotta ai pregiudizi; per altri, il testo rischia di creare zone d’ombra in cui la critica politica o storica verso Israele possa essere equivocata come espressione di odio.
In particolare, la sovrapposizione tra antisemitismo e antisionismo — due concetti distinti — solleva interrogativi interpretativi. L’intento di proteggere una minoranza è chiaro e condivisibile, ma la formulazione giuridica dovrà essere molto precisa per evitare abusi o fraintendimenti.
Fatto sta che la legge, così come è stata presentata, non è piaciuta a diversi movimenti pro Pal che hanno annunciato proteste contro l'approvazione. Una situazione che per certi versi ricorda l'impegno civile contro il ddl Sicurezza andato avanti tra l'autunno 2024 e la primavera 2025.
Il punto centrale, al di là delle posizioni, è come una democrazia riesca a conciliare due esigenze fondamentali: la lotta all’odio e la tutela del dissenso.
Le piazze di settembre e ottobre non rappresentano un fronte unico, ma un insieme di voci diverse che chiedono attenzione, trasparenza e diritti.
La legge di cui si discute in Senato, se ben scritta e chiarita nei suoi limiti, può essere uno strumento di protezione. Ma se rimane ambigua, rischia di diventare un terreno di incomprensioni.
Per questo è importante che il dibattito resti aperto e informato — che giornalisti, insegnanti, studenti e cittadini ne parlino con serenità, senza slogan.
L’antisemitismo è un fenomeno reale, radicato, che merita una risposta seria. Allo stesso modo, la libertà di parola è un valore che non può essere eroso nemmeno in nome delle migliori intenzioni.
Le manifestazioni per la pace e la discussione del ddl 1627, viste insieme, raccontano un Paese che sta cercando un equilibrio tra memoria e libertà, tra sicurezza e parola.
E forse è proprio in questo equilibrio, fragile ma necessario, che si misura la maturità di una democrazia: nel saper difendere le persone senza zittire le idee.