Anche la componente più moderata del governo Meloni sale sul carro del vincitore. Da Parigi è arrivato un commento che ha immediatamente acceso il dibattito politico e mediatico.
Antonio Tajani, ministro degli Esteri e vicepremier, ha dichiarato che Donald Trump avrebbe “tutti i requisiti” per ricevere il Premio Nobel per la Pace.
Le sue parole, pronunciate a margine della riunione internazionale su Gaza, hanno rilanciato uno dei temi più controversi del momento: può un ex presidente che ha costruito la propria immagine sullo scontro e sulla discontinuità incarnare il simbolo universale della pace?
L’idea di un Nobel a Trump ha l’aria di una provocazione diplomatica più che di una riflessione pacifista.
Tajani ha sottolineato che il leader americano avrebbe ottenuto “un risultato straordinario” mettendo allo stesso tavolo Hamas e Israele e firmando una tregua che prevede il rilascio di ostaggi e prigionieri palestinesi.
In termini mediatici, un successo: il ritorno delle trattative, un cessate il fuoco, la speranza — anche se fragile — di una stabilità possibile.
Ma dietro la superficie si nasconde una domanda più sostanziale: un accordo temporaneo basta a consacrare un leader come costruttore di pace?
Molti analisti fanno notare che il Nobel non è un riconoscimento al “risultato del momento”, ma a un percorso coerente e duraturo.
E nel caso di Trump, la memoria politica recente resta segnata da tensioni internazionali, da un linguaggio divisivo e da scelte che hanno spesso accentuato le fratture globali più che ricomporle.
Il rischio, allora, è che la candidatura stessa appaia come una manovra di riabilitazione politica più che come un riconoscimento sincero di un’azione di pace.
Nel rilanciare la proposta, Tajani ha insistito sul ruolo costruttivo dell’Italia e sull’impegno per la ricostruzione di Gaza, presentando Roma come partner affidabile nel nuovo scenario mediorientale.
Ha parlato di ospedali da ricostruire, aiuti alimentari, persino di un contingente internazionale con carabinieri “che già conoscono il territorio”.
Tutto legittimo, ma il tempismo e la scelta di associare l’Italia al nome di Trump sollevano qualche dubbio: la diplomazia italiana si muove per rafforzare la propria immagine di interlocutore globale o per assecondare l’onda politica del momento?
La strategia del ministro sembra quella di costruire un racconto di pragmatismo e risultati, dove il giudizio politico si misura più sull’efficacia immediata che sulla coerenza dei valori.
In questa chiave, l’appoggio a Trump per il Nobel non è solo un atto di simpatia, ma anche un messaggio implicito: chi porta un accordo, anche temporaneo, merita riconoscimento, indipendentemente dalle ombre del passato.
È una visione “contrattualistica” della pace, utile a guadagnare consenso ma debole sul piano etico e storico.
L’ipotesi di un Nobel a Trump, rilanciata anche da leader come Matteo Salvini, tocca un punto sensibile del nostro tempo: la progressiva spettacolarizzazione dei simboli.
Il Nobel, pensato come riconoscimento all’impegno umanitario e alla costruzione paziente della convivenza tra popoli, rischia di diventare un trofeo politico da esibire più che un sigillo di pace.
Premiare Trump significherebbe premiare un gesto più che un percorso, un risultato immediato più che un impegno costante.
Eppure, in questa stagione di diplomazia fragile e di comunicazione istantanea, la tentazione di legittimare il potere attraverso i simboli è forte.
Tajani e Trump, ciascuno a modo suo, sembrano incarnare questa logica: l’uno cerca di proiettare l’Italia come mediatore autorevole, l’altro tenta di riscrivere la propria immagine pubblica passando da leader divisivo a pacificatore globale.
Ma la pace — quella vera — difficilmente nasce da un colpo di teatro o da un comunicato stampa. Richiede continuità, responsabilità e una memoria che non cancelli gli errori del passato per convenienza diplomatica.
E forse proprio qui, nel contrasto tra la realtà dei fatti e la narrazione del momento, si gioca la distanza tra un premio che dovrebbe celebrare la pace e una politica che sembra volerla semplicemente proclamare.
In mattinata è arrivato l'annuncio, da parte proprio di Tajani, che Giorgia Meloni parteciperà lunedì alla "grande cerimonia di firma ufficiale del cessate il fuoco" a Gaza.