Duecentosettanta miliardi è una cifra che fa tremare i polsi. Più che un semplice emendamento, siamo di fronte all’apertura di un nuovo capitolo italiano, per certi versi drammatico, che non riguarda soltanto l’oro di Bankitalia. La questione di fondo è duplice: quanto vale realmente quest’oro e perché è considerato essenziale per la tenuta dei conti pubblici? È su questi numeri, e sulle diverse visioni politiche che li accompagnano, che si riaccende il dibattito sulla titolarità delle riserve auree.
In premessa, la domanda mette a fuoco una dinamica che investe uno dei patrimoni più preziosi e sensibili del Paese, da cui dipende una parte significativa della reputazione finanziaria dell’Italia. L’emendamento presentato da Fratelli d’Italia nella Manovra 2026 apre infatti un fronte nuovo: non riguarda pagamenti né interventi immediati, almeno per ora, ma propone il trasferimento allo Stato delle riserve auree attualmente gestite dalla Banca d’Italia.
Una proposta che non può essere letta isolatamente. Deve essere interpretata alla luce dei riferimenti normativi esistenti, in particolare la legge n. 262/2005, che tutela l’autonomia dell’Istituto, e delle regole europee che salvaguardano l’indipendenza delle banche centrali. Elementi imprescindibili per comprendere la portata e le possibili conseguenze di un cambiamento che, se attuato, toccherebbe il cuore stesso della credibilità economica nazionale.
Come anticipato, le 2.452 tonnellate di oro avranno un impatto decisivo sulla vita economica, politica e sociale del Paese. Se si aggiunge che il loro valore segue stime consolidate da anni dalla Banca d’Italia, si comprende meglio la portata dell’emendamento. Le riserve, conservate in parte nei caveau nazionali e in parte presso istituzioni internazionali, rappresentano una ricchezza in costante crescita grazie al rialzo delle quotazioni del metallo.
Secondo approfondimenti pubblicati da quotidiani economici come Il Sole 24 Ore e Milano Finanza, la valutazione complessiva oscilla oggi tra poco sotto i 200 miliardi e oltre 270 miliardi di euro, a seconda del prezzo internazionale. L’Italia detiene così una delle riserve auree più ingenti al mondo, un pilastro che rafforza la credibilità del sistema finanziario e funge da assicurazione in caso di shock economici. Non a caso, numerose analisi ricordano che l’oro rappresenta un asset di ultima istanza, da utilizzare solo in situazioni estreme e nel rispetto delle regole dell’Eurosistema.
Le sfide che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni richiederanno negoziazioni, investimenti e un sostegno costante al tessuto produttivo per preservare la competitività dell’economia nazionale. Ciò implica anche dover affrontare rischi rilevanti, legati non soltanto all’occupazione ma anche alla crescita dell’economia reale. In questo quadro si inserisce l’emendamento di Fratelli d’Italia, che mira a modificare l’articolo iniziale della manovra per dichiarare che le riserve auree appartengono allo Stato. La proposta non implica automaticamente una vendita dell’oro né l’ingresso immediato delle riserve nei bilanci pubblici, ma rappresenta la base di una nuova forma di controllo politico e istituzionale.
Questa iniziativa non è nuova nel panorama italiano. Periodicamente la tentazione di utilizzare, almeno teoricamente, il valore dell’oro riaffiora nei momenti di tensione sui conti pubblici. Tuttavia, come osservato da diversi economisti, il confine tra titolarità simbolica e gestione operativa resta decisivo. Anche qualora lo Stato rivendicasse formalmente la proprietà dell’oro, la sua effettiva utilizzabilità rimarrebbe vincolata dalle norme europee e dal ruolo della Banca d’Italia all’interno del Sistema europeo delle banche centrali.
Lo Stato rischierebbe di apparire più vulnerabile se intervenisse in modo diretto sulle riserve auree, motivo per cui qualsiasi mossa richiede cautela. La legge n. 262/2005 tutela l’indipendenza della Banca d’Italia anche nella gestione dell’oro, proprio per evitare interferenze politiche nella stabilità monetaria. A ciò si aggiungono i Trattati europei, che vietano agli Stati membri di utilizzare le riserve delle banche centrali per finanziare la spesa pubblica o ridurre il debito.
Sostenere anche il solo trasferimento formale della titolarità potrebbe generare incertezza nei mercati e sollevare dubbi sulla solidità istituzionale italiana. L’oro, infatti, non è solo un bene finanziario: è un segnale di affidabilità verso investitori, agenzie di rating e partner internazionali.
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