Fino a poco tempo fa l’esito dei controlli interni difficilmente sfociava in un licenziamento immediato; oggi, invece, il panorama è mutato radicalmente: basta un test occulto per decidere il destino professionale di un dipendente.
A riaccendere i riflettori su questo delicato equilibrio è stata la vicenda dei licenziamenti che hanno coinvolto la catena Pam, scaturiti dall’applicazione del controverso “test del finto cliente” in alcuni punti vendita tra Siena e Livorno.
Questo episodio ha riportato prepotentemente al centro del dibattito due pilastri del diritto del lavoro: l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, che disciplina in modo rigoroso l’utilizzo degli strumenti di controllo, e l’articolo 18, la norma storica sulle tutele in caso di recesso illegittimo, il cui impianto è stato ridefinito dalle riforme degli ultimi anni, a partire dal Jobs Act.
Due riferimenti essenziali per capire se una verifica aziendale possa trasformarsi, oppure no, nel motivo concreto per interrompere immediatamente un rapporto di lavoro.
Il caso dei licenziamenti Pam ha messo in luce un meccanismo di controllo aziendale che, da semplice verifica di efficienza, sembra essersi trasformato in uno strumento potenzialmente punitivo. Da qui la domanda: questa prassi può davvero estendersi ovunque?
Un caso isolato? Forse, ma secondo molti osservatori potrebbe diventare un precedente pericoloso per tutto il settore della grande distribuzione.
Secondo quanto ricostruito da Sky TG24, i licenziamenti sono arrivati dopo una prova interna condotta da incaricati aziendali camuffati da normali clienti.
L’intenzione degli ispettori era quella di valutare l’efficienza e l’attenzione operativa del personale.
Per questo motivo, durante la spesa, nascondevano articoli nel carrello o sotto prodotti voluminosi, osservando se i cassieri li avrebbero individuati al momento del pagamento.
Un mancato rilevamento portava all’immediata contestazione disciplinare, fino alla sanzione più grave.
Come evidenziato da un approfondimento pubblicato da la Repubblica Firenze, non si è trattato di un controllo sporadico, ma di una procedura strutturata.
La prassi prevedeva che un ispettore entrasse in negozio, simulasse una spesa normale e nascondesse merce in punti difficili da individuare. Al momento del pagamento, la verifica consisteva nel controllare se il cassiere fosse in grado di riconoscere l’anomalia.
Va ricordato che il personale di cassa opera spesso in condizioni di forte pressione: turni intensi, code, richieste simultanee, tempi stretti e un flusso costante di clienti. In un contesto così frenetico, una distrazione è possibile e non implica automaticamente una mancanza professionale.
Di fatto, i sindacati hanno parlato apertamente di una “trappola”, sostenendo che si trattasse di un test costruito per indurre l’errore più che per valutare una reale inefficienza.
Il sospetto, emerso dalle dichiarazioni riportate, è che la prova non fosse una semplice misura di sicurezza, ma uno strumento disciplinare applicato in modo rigido e automatico.
Per comprendere la legittimità di un controllo come questo, è necessario partire dall’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori. La norma stabilisce che i controlli sull’attività dei dipendenti devono essere:
Il vero problema è proprio la trasparenza. Se un test del genere viene introdotto senza una comunicazione preventiva chiara e documentata, può risultare in contrasto con la normativa e, quindi, non essere utilizzabile come base per un licenziamento.
Nello stesso tempo, l’articolo 18 stabilisce che il licenziamento per giusta causa sia possibile solo quando la condotta del lavoratore è talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto.
Nel caso riportato da Sky TG24, il mancato riconoscimento di un prodotto nascosto volontariamente, in condizioni operative complesse, solleva dubbi sulla reale proporzionalità della sanzione.
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