Altro che asinello ed elefantino, le procedure di scrutinio delle midterm procedono a passo di tartaruga. Ma procedono. Il Partito Repubblicano si avvia verso l'ottenimento della maggioranza alla Camera, mentre per il Senato si sta giocando sul filo del rasoio. Questo basa, al netto delle aspetattive, a descriverla come una mezza sconfitta dei repubblicani. I quali si sono apprestati alla sfida con sondaggi più che favorevoli. Qualcosa, dunque, non ha funzionato. E qualcuno pare già pronto a puntare il dito contro Donald Trump: l'ex Presidente, dopo la sconfitta nel 2020, deve prendersi la responsabilità di alcune sconfitte in stati specifici. Dove il Tycoon ha posizionato i suoi cavalli, le cose non sono andate bene. Oz ha perso contro Fetterman in Pennsylvania; Kelly è in vantaggio su Masters in Arizona; Walker non è andato oltre il ballottaggio contro Warnock in Georgia. L'unica vittoria di potenza è arrivata in Ohio: Vance ha ottenuto il seggio contro il dem Ryan.
Ma dicevamo che c'è maretta in casa Gop. Specie se si va a leggere il parziale che dice 48 senatori per partito in attesa del completamento degli scrutini e del ballottaggio, che si terrà a dicembre, in Georgia. Se dovesse confermarsi la situazione precedente alle midterm, ossia la perfetta parità al Senato, sarebbe una sconfitta davvero clamorosa per il partito Repubblicano. Il quale, dicevamo, sarebbe pronto a scaricare Donald Trump in favore di Ron DeSantis fresco di conferma alla guida della Florida ed astro nascente del partito. La picconata di Fox News contro l'ex Presidente è il sintomo, mediatico ed empirico, del malcontento che regna. Ma la bocciatura di Trump non è solo un fatto interno al partito. È anche il paese, bocciando i suoi candidati, che in un certo senso hanno confermato quanto detto nel 2020: basta trumpismo.
Dall'altra parte c'è Joe Biden che sta riuscendo in un'impresa incredibile: collezionare uno dei migliori risultati nella storia delle midterm, che sono tradizionalmente e fiosologicamente sfavorevoli al partito presidenziale, pur essendo tra i presidenti con il tasso di gradimento più basso di sempre. Biden è un uomo abituato a certe anomalie basti pensare che, seppur impopolare, è stato il Presidente più votato nella storia degli Stati Uniti d'America nel 2020. Non è riduttivo dire che gran parte di questi risultati si spiegano in funzione dell'opponent: quel Donald Trump che, più di ogni altro, è riuscito a polarizzare l'opinione pubblica del paese ed a compattare il fronte avversario. È in pericolo la democrazia uno dei leimotiv declinati dalla parte dem, tanto nel 2020 quanto nel corso di queste midterm. Insomma, Joe Biden ha certamente dei meriti, ma un grado di impopolarità così basso (39% alla vigilia delle midterm) non può essere un caso. Così come non è un caso che il Presidente non si sia particolarmente speso in prima persona nell'ambito delle midterm, lasciando i candidati liberi di personalizzare le varie campagne elettorali. Unica eccezione, la sua Pennsylvania.
Alla fine, seppur in modi diversi, i cittadini d'America sembrano voler dire: né Trump né Biden. Eppure sembrano essere proprio loro i candidati delle prossime elezioni presidenziali. Chiaro che c'è un problema di successione in ambedue i partiti: il partito Repubblicano soffre l'ingombranza del trumpismo e le figure promettenti, come DeSantis, vengono presto silenziate in favore del capo smargiasso; nel partito Democratico sembrano mancare le figure. Kamala Harris, per attrito o per inesperienza, non è riuscita ad emergere anche se c'erano tutti gli elementi che farlo: donna, afroamericana, candidata designata del futuro. Le altre figure come Occasio-Cortez sembrano, al momento, un passo troppo affrettato per un partito a trazione sinistra-centro che sinistra-sinistra. Insomma, c'è un problema di succesione. E nel Dem, e nel Gop. Un segnale preoccupante quando siamo al giro di boa e pronti a sprintare verso il 2024.