Se il dibattito pubblico spesso dimentica di parlare di carceri e diritti dei detenuti, ancor più spesso si dimentica di parlare della realtà delle donne in carcere in Italia.
Secondo i dati raccolti dall'associazione Antigone nel suo 'Primo rapporto sulle donne detenute in Italia' al 31 gennaio 2023 le donne presenti negli istituti di pena italiani erano 2.392, ovvero il 4.2% del totale della popolazione carceraria.
La minor presenza della componente femminile in carcere - a fronte dell'assoluta prevalenza di quella maschile - impone allora delle considerazioni circa le conseguenze prodotte da questo squilibrio.
Occorre chiedersi, infatti, se le donne in carcere riescano ad accedere agli stessi servizi garantiti alla componente maschile, anche e soprattutto in termini di formazione professionale e di presenza di personale in grado di rispondere alle esigenze femminili.
Prima di porsi qualsiasi interrogativo sul rapporto tra donne e carceri in Italia, è bene però continuare a dare un veloce sguardo ai numeri. Nel nostro Paese, infatti, esistono solo quattro carceri esclusivamente dedicati alla detenzione femminile (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) che ospitano attualmente 599 donne, pari a un quarto del totale degli attualmente detenuti.
Questo significa, dunque, che la maggior parte delle donne sta scontando la detenzione in sezioni separate degli Istituti di pena maschili diffusi sul territorio. Anche in queste carceri, peraltro, esistono sensibili differenze e si passa dalle 2 detenute presenti attualmente nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto alle 144 ospiti a Milano Bollate.
Lo squilibrio determinato da questa situazione è tutto fuorché banale. Gli istituti penitenziari del nostro Paese sono, infatti, principalmente concepiti per l'accoglienza della componente maschile della società.
Il modello di detenzione vigente, pertanto, non riesce facilmente risponde alle esigenza delle donne né dal punto di vista delle opportunità offerte in carcere - formazione culturale e professionale per il reinserimento in società - ma neanche dal punto di vista della presenza di personale penitenziario specializzato nel rispondere alle esigenze di questo tipo di utenza.
Per comprendere come vivano le donne in carcere, la redazione di TAG24 ha raggiunto Micaela Tosato, ex detenuta e vicepresidente dell'associazione "Sbarre di zucchero" nata per portare alla luce la realtà di «quando il carcere è donna in un mondo di uomini».
Micaela Tosato, come nasce la vostra associazione e quali scopi perseguite?
«Sbarre di zucchero nasce il 7 agosto del 2022 dopo il suicidio, nel carcere di Verona, di Donatella Hodo. Il gruppo nasce dalla volontà di un gruppo di ex detenute che, con la morte di Donatella, si sono rese conto della necessità di lottare per i diritti delle donne in un mondo carcerario costruito per gli uomini.
Abbiamo deciso di iniziare il nostro lavoro aprendo il gruppo social "Sbarre di zucchero" così da avere uno spazio dove raccontarci e scrivere le nostre esperienze. Inaspettatamente, però, ci siamo trovate circondate da un interesse sempre più grande.
Presto hanno iniziato a compiere questo percorso con noi avvocati, associazioni, garanti: per questo il 1 ottobre di quest'anno abbiamo deciso di costituirci in associazione e far sentire la nostra voce. Anche perché non abbiamo motivo di nasconderci: abbiamo pagato i nostri sbagli e adesso siamo ripartite.
Oggi posso dire, orgogliosamente, che siamo divenute un punto di riferimento per la detenzione femminile».
Quali sono i problemi della detenzione femminile in Italia?
«La detenzione femminile è una detenzione di minoranza e, soprattutto, doppia. I numeri esigui delle donne in carcere fanno sì che queste siano spesso escluse dalle attività o dal lavoro. Il carcere diventa, così, doppiamente pesante e soprattutto penalizzante.
Il sistema attuale sfavorisce le donne, al pari degli stranieri - che appena usciti si trovano privati dei documenti - o delle persone trans, detenute ingiustamente insieme ai sex offenders, ovvero coloro che si macchiano di reati come la pedofilia o la violenza sulle donne.
La nostra battaglia è perché in carcere siano rispettati i diritti delle persone, i quali non vanno a svanire se si è reclusi. Le carceri italiane hanno bisogno di maggior integrazione, anche perché si osservano gli esiti spesso tragici: pensiamo al numero di suicidi che avvengono nelle celle».
L'ultima notizia di un suicidio in carcere ad Udine è solo di ieri.
«Purtroppo gli episodi sono molto frequenti. Solo qualche giorno fa una ragazza ha tentato di togliersi la vita nel carcere di Brescia, è stata salvata per un soffio.
Questi tentativi avvengono spesso quando il detenuto è in procinto di uscire dal carcere. Se la pena non è rieducativa e non aiuta a reinserirsi nella società, se non si creano dei percorsi per ricostruire la propria vita fuori è infatti facile sentirsi persi.
In carcere spesso il lavoro è camuffato da volontariato, nonostante il grande impegno richiesto, e tante volte non si viene neanche pagati. Mettere i soldi da parte è però importante per un detenuto che vuole costruire una nuova vita dopo la detenzione.
La formazione professionale in carcere non è poi adeguata, e quel poco che c'è è solo per uomini. Alle donne si fanno fare ancora i corsi di uncinetto, per capirci.
Prendo ad esempio il carcere di Verona: lì ci sono 40 donne e 500 uomini e per questo l'organizzazione delle attività è rivolta solo a questi ultimi.
Sempre a Verona, realtà che conosco, sia l'istituto alberghiero sia il corso per la formazione da odontotecnico sono riservati solo agli uomini. L'area cani e quella cavalli sono, ugualmente, fruibili dai soli uomini».
La presa di consapevolezza circa gli squilibri nella detenzione tra uomini e donne è arrivata in carcere o solo dopo, una volta uscite e vissuto il trauma della perdita di Donatella?
«La condizione di detenzione è sempre stata questa, la morte di Donatella ha fatto solo traboccare il vaso. Dopo il suo suicidio abbiamo infatti deciso di metterci la faccia, sapendo che non abbiamo nessun motivo per nasconderci: abbiamo scontato la nostra pena e oggi siamo persone libere. Come dice il mio avvocato, i miei scheletri "ballano in piazza".
Un aspetto importante, a mio parere, è che anche tanti uomini si sono uniti alla nostra battaglia con Sbarre di zucchero. Credo sia la dimostrazione che i diritti che chiediamo sono di tutti».
La nostra società ha assorbito l'idea che la pena non debba essere punitiva ma rieducativa?
«Io ho accettato la punizione perché ho sbagliato. Ma se si viene private della libertà e messe in un istituto per passare il tempo sdraiate sul letto a far nulla, senza frequentare un'università o un corso di formazione, come si può "guarire dalla delinquenza"? È chiaro che senza possibilità in tanti escono più cattivi di prima.
Se si dà invece modo ai detenuti di studiare, di lavorare e di capire che con l'impegno, il sacrificio e il rispetto delle regole si può vivere in un modo diverso il futuro delle persone cambia.
Questi percorsi servono mentre il detenuto è dentro ma anche e soprattutto quando il detenuto è fuori.
Posso assicurare che la parte più difficile del percorso è quando si finisce di scontare la pena in misura alternativa, perché in quel momento si è fuori dal carcere ma allo stesso tempo non si è liberi. Saper gestire questa condizione non è facile, soprattutto perché si è soli e non c'è nessuno a indirizzare verso la corretta strada.
Per il resto, serve si parli di più di detenzione femminile perché spesso si dicono cose inesatte. In un evento online organizzato da Antigone ho sentito dire che le donne in carcere sono meno violente. Posso assicurare che non è assolutamente così, anzi.
Per questo è importante che oltre a parlare di numeri si dia voce a chi il carcere l'ha davvero conosciuto».
Che ruolo possono giocare le persone ex detenute e tornate in libertà nel contribuire a cambiare il sistema carcerario italiano?
«Un ruolo fondamentale: anche il solo fatto di parlare e raccontare quello che accade dietro le sbarre - come fa la nostra associazione - è importante. Spesso ci si dice che i nostri sembrano degli attacchi, ma non è così, è solo il racconto della verità.
Io ho visto in carcere pazienti a cui sono state somministrate terapie con dosaggi più elevati del normale. Ho visto diverse persone tentare il suicidio - o pensare di farlo - e richiedere più terapia per andare avanti».
C'è spazio per la salute mentale in carcere?
«La cura della salute mentale in carcere è spesso solo un imbottire di psicofarmaci cosicché le persone riescano a gestire lo stress.
Il carcere è altamente stressante: c'è rumore dalla mattina alla sera, c'è rumore la notte quando gli assistenti cambiano turno, c'è il rumore di chi urla e impazzisce. Senza un grosso equilibrio è difficile andare avanti.
Spesso la cosa più semplice è chiedere più medicine allo psichiatra. Questa però non è cura della salute mentale. Gli psicologi sono poi pochissimi e, quando va bene, ci si riesce a parlare una volta ogni due mesi».
È vero che in carcere alcune persone riescono a vivere una condizione di detenzione migliore rispetto a chi ha meno possibilità, sia a livello economico che di influenza?
«Chiaramente chi ha più soldi riesce a comprarsi cose migliori, ad esempio da mangiare, dato che le gare d'appalto per le mense delle carceri sono fatte al ribasso e il cibo non è buono.
Se si hanno le possibilità si vive meglio, ma la differenza è in questo non in altro. Se il riferimento è invece a qualche possibile influenza io non ho visto di queste cose. Sicuramente tra i detenuti c'è tanta solidarietà, anche nello scambio di piccole cose che se si hanno si danno per scontate, ma non lo sono».
Quali obiettivi vorrebbe fossero raggiunti per migliorare il nostro sistema carcerario?
«Innanzitutto il pieno rispetto dei diritti: la detenzione non deve né limitare né togliere alcun diritto all'essere umano.
In secondo luogo vorremmo si ottenesse la parità di genere perché la detenzione femminile non può essere più penalizzante di quella maschile. Alle donne in carcere servono più opportunità di studio, di lavoro, di preparazione professionale. Non si può essere trascurate per via dei numeri.
Il terzo obiettivo riguarda il ritorno in libertà. Ai detenuti deve essere data la possibilità di riprendere in mano la propria vita, non essendo marchiati a vita per gli errori fatti. Se dopo aver scontato la pena sono sempre obbligata a portare il casellario giudiziario nei colloqui, è chiaro che non mi assumerà mai nessuno».