I recenti fatti di cronaca riguardanti la violenza contro le donne, i femminicidi, stanno svegliando molte coscienze in Italia. Ci sono realtà che tutti i giorni da anni nel nostro Paese si impegnano nel contrasto alla violenza, nell'aiutare e sostenere sia a livello psicologico che economico le vittime dei abusi e maltrattamenti, insieme ai loro bambini.
Tag24 ha deciso di approfondire la realtà del Centro antiviolenza 'Renata Fonte' a Lecce, un punto di riferimento per tante donne nel sud Italia, un' ancora di salvezza che ha aiutato oltre 7 500 vittime di violenza durante i suoi 25 anni di attività.
Il 'Renata Fonte' di Lecce dal 2018 fa parte del progetto Reama, la rete di empowerment femminile che ha unito tanti sportelli, centri antiviolenza e casi rifugio in tutta Italia grazie alla Fondazione Pangea Onlus.
Per celebrare il 25esimo anniversario del 'Renata Fonte' e per capire come il Centro aiuti le donne e i bambini che subiscono violenza Tag24 ha intervistato la Presidente, Maria Luisa Toto.
D: Il Centro 'Renata Fonte' di Lecce quest'anno compie 25 anni di attività. Qual è la situazione nel sud Italia in merito alla violenza contro le donne? Nei piccoli paesi gli episodi legati alla violenza sono ancora visti come uno stigma nella società? Le donne ancora si vergognano a denunciare, a chiedere aiuto?
R: Rispetto a 25 anni fa quando è nato il Centro antiviolenza, le donne hanno più consapevolezza e quindi chiedono di più aiuto ai centri. Per quanto riguarda la vergogna, questa purtroppo sussiste ancora. Parliamo di donne che forse ancora oggi non riconoscono la violenza subita, perché per loro la violenza è la ferita; invece stentano ancora a riconoscere la matrice di un atteggiamento maschile violento, perché lo attribuiscono a quella cultura patriarcale, da cui le donne sono tutt'ora assorbite.
Mi spiego meglio, faccio un esempio: parliamo di violenza sessuale all'interno di una coppia. Ancora oggi non viene riconosciuta come tale perché la si percepisce come una sorta di dovere coniugale. Questa è una situazione che vediamo tutti i giorni. Le donne parlano, sono addolorate rispetto a questa fattispecie, ma non la riconoscono come una violenza: il risultato è che ne soffrono a livello psicologico.
E' in seguito ai colloqui con le operatrici del Centro e nei gruppi psicologici, dopo la presa in carico della situazione, che esce fuori la violenza e inizia la presa di coscienza e la consapevolezza che quell'atto sessuale contrario alla propria volontà è uno stupro, è un reato, è violenza sessuale.
D: In questi 25 anni il vostro centro ha aiutato tante donne nel percorso di fuori uscita dalla violenza, ma anche tanti bambini. Spesso i figli, soprattutto i minori, assistono ai maltrattamenti nei confronti delle mamme, li vivono anche in prima persona, e di frequente vedono con i propri occhi uccidere le madri. Come aiutate i piccoli a superare la violenza?
R: Noi abbiamo aiutato 7 500 donne in questi anni, insieme ai loro bambini, a loro volta vittime delle violenze a cui hanno assistito. Abbiamo lottato e sostenuto le mamme quando i padri violenti reiterano i loro comportamenti anche dopo eventuali denunce e separazioni. Non è raro che i padri continuino a maltrattare le donne attraverso i figli.
I bambini vanno aiutati a liberare quanto prima dalla condizione di violenza le loro mamme, allontanando il maltrattante dal nucleo famigliare. Bisogna valutare bene se il padre violento sia veramente meritevole dei diritti legati alla paternità. I figli in queste situazioni diventano una sorta di strumento. In tanti anni di lavoro e assistenza purtroppo non abbiamo mai visto un amore puro da parte di questi padri verso i loro figli. Per loro sono oggetti di potere e di possesso come le mamme.
Oltre all'allontanamento del maltrattante, aiutiamo i bambini con percorsi psicologici per superare la violenza. Assistere quotidianamente ad una situazione di violenza da parte dei genitori, cioè persone di riferimento per i bambini, è uguale subire maltrattamenti sulla propria pelle e in alcuni casi, ad avere quel funzionamento come modello da seguire.
Le conseguenze degli abusi legati alla violenza domestica sui bambini che abbiamo notato in questi anni sono disturbi del sonno, dell'attenzione, patologie legate al cibo, depressione, tristezza, atti di bullismo. Sono conseguenze terribili, bisogna mettere in piedi una rete di protezione che tenga conto anche di questo.
D: Il caso di cronaca che ha riguardato l'assassinio di Giulia Cecchettin ha scosso tutta l'Italia: quanto è importante saper riconoscere i primi sintomi della violenza? L'introduzione dell'educazione affettiva nelle scuole può fare la differenza in concreto?
R: Noi con il Centro insistiamo tanto sulla prevenzione, soprattutto nelle scuole. In generale consigliamo alle donne di scappare, di andare via, di interrompere sin dal primo momento la relazione, dal quando il partener inizia subdolamente a manipolare, partendo dai commenti sull'abbigliamento ('Non vestirti così'), dai tentativi di controllo delle reti amicali e famigliari. E bisogna parlarne: si deve comunicare agli altri la propria sofferenza.
Non ci si deve vergognare e quando c'è un malessere per un comportamento, la prima cosa da fare è non chiudersi in se stesse e non sperare di potercela fare da sole. E' essenziale tirare fuori tutto quello che si sta vivendo in quel momento, dai primi segnali. Non bisogna dare l'opportunità di andare avanti in queste situazioni perché un atteggiamento violento e maltrattante non cambia nel tempo, anzi c'è un escaletion negativa di quel comportamento.
Non si deve assolutamente minimizzare la violenza perché poi diventa una tragedia. Noi donne dobbiamo credere in noi stesse e abbandonare la sindrome della crocerossina. Pensare 'lo cambierò', 'lo aiuterò', sono segni che una donna non sta riconoscendo i primi segni di violenza. Bisogna capire che certi comportamenti sono tossici e allontanarsi subito.
La violenza contro le donne ha matrici prettamente culturali, è una mentalità che risale alle origini del mondo e che è insita nella disparità di potere tra i sessi. Affonda le sue radici nella discriminazione di genere. Ma attenzione: riconosciamola, raccontiamola come una delle più diffuse e vergognose violazioni dei diritti umani. La prevenzione, il cambio rotta, la rivoluzione culturale si possono realizzare solo se interveniamo tutti e non deleghiamo solo alla scuola.
I giovani sono un terreno permeabile certo, bisogna educarli al rispetto tra i due generi e al consenso. Bisogna far capire ai ragazzi che non esiste il dominio di un sesso sull'altro. Le donne hanno cominciato a muovere i passi nella consapevolezza che esiste un dominio maschile, l'uomo non lo accetta, si rifiuta ed esercita il controllo, il suo dominio di vita e di morte. Il femminicidio è un atto simbolico: un uomo pensa di avere il potere su una donna e quindi sulla sua vita.
D: La morte di Giulia ha creato un'ondata di indignazione, sta svegliando le coscienze. Dal punto di vista di chi lotta tutti i giorni contro la violenza di genere, attraverso l'educazione, la prevenzione e il sostegno alla vittime, questo clamore mediatico può riuscire a sensibilizzare la società o sarà l'ennesimo fuoco di paglia, l'ennesimo numero di un elenco di donne uccise?
R: Io non voglio essere negativa ma mi attengo ai dati di realtà. Il fatto che le persone insistano e si meraviglino della giovane età di questa coppia, di Giulia e Filippo - per chi lavora nei centri antiviolenza questo elemento non rappresenta una novità - mi sconvolge, perché noi l'avevamo detto, avevamo fatto presente che la soglia dell'età in cui si commettono violenze si sta abbassando. Ma non c'è ascolto.
Per noi non è stata una novità, però per l'opinione pubblica la giovane età, l'avvicinarsi del 25 novembre, il fatto che i due ragazzi fossero spariti, la narrazione dei "fidanzatini", sono tutti elementi che hanno contribuito a spostare l'attenzione. La sensibilizzazione, la comunicazione sono armi potenti se usate in maniera adeguata per una corretta informazione nell'ottica della prevenzione. Negli ultimi tempi si parla di questi temi ma non nel modo corretto, bisogna chiamare le cose con il proprio nome: è violenza maschile contro le donne.
Bisogna conoscere a fondo questi argomenti, perché l'unico modo attraverso cui si piò fermare questo fenomeno è proprio la conoscenza. Io dopo 25 anni di lavoro nell'ambito posso dire che il fenomeno della violenza contro le donne non si conosce ancora nelle sue radici, nella sua matrice sociale. Ed è per questo che secondo me si sbagliano tutte le azioni di contrasto che si stanno mettendo in atto, ed ecco perché i femminicidi stanno aumentando, si sta sbagliando qualcosa. Questo tipo di comunicazione sta da un lato banalizzando il fenomeno e dall'altro lo sta normalizzando.
Ecco un approfondimento sul caso di femminicidio di Giulia Cecchettin.
Il Centro antiviolenza 'Renata Fonte' di Lecce celebra i suoi 25 anni di attività nel sostegno alle donne vittime di violenza con una mostra intitolata 'Foto-sintesi' dell'artista Marzia Bianchi, una giovane fotografa che ha realizzato una serie di scatti in bianco e nero nel centro, con un focus sull'albero che si trova nel cortile della struttura, simbolo per eccellenza del Renata Fonte, e sui volti delle donne aiutate dal centro.
L'inaugurazione della mostra si terrà il 23 novembre alle 17 presso la Sala Teatrino dell'Ex Convitto Palmieri a Lecce.
D: Qual è la fonte di ispirazione della mostra 'Foto-sintesi'? Cosa simboleggia l'albero del Renata Fonte?
R: Io già conoscevo il Centro Renata Fonte e la Presidente attraverso Pangea Onlus, perché fa parte di Reama, una rete di empowerment femminile che ha unito tanti sportelli, centri antiviolenza e casi rifugio in tutta Italia. Il Renata Fonte è una realtà storica del sud.
C'è questo albero che io ho visto di persona pochi mesi fa ma di cui avevo molto sentito parlare. Colleghe e operatrici mi hanno rivelato l'importanza di questo spazio per le donne: è un albero bellissimo, c'è qualcosa di magico, il beneficio del contatto con la natura.
Questo albero apporta un senso di accoglienza, di protezione. Ci sono dei punti di questo ficus antichissimo in cui quasi ci si può nascondere. Simboleggia la forza del lavoro che si fa dentro il centro, di tutte le storie che si intrecciano, proprio come le radici dell'albero.
Ecco un approfondimento in tema di violenza contro le donne: un'intervista alla responsabile del Laboratorio "Cuoche Combattenti" di Palermo.