Quando fu raggiunta al volto da un proiettile vagante, Marta Russo aveva 22 anni e stava passeggiando - come faceva sempre - all'interno della città universitaria della Sapienza, a Roma. Era il 9 maggio del 1997. Cinque giorni dopo si spense in ospedale nonostante i tentativi dei medici di salvarla e i genitori ne donarono gli organi, salvando diverse vite. Da quei momenti sono passati 27 anni.
L'anno scorso, in occasione del 26esimo anniversario del delitto, sul profilo Facebook dedicato alla ragazza "per difenderne la memoria" era apparso un post che recitava: "Ricordatemi attraverso la verità". Alla Sapienza, in presenza della rettrice Antonella Polimeni, studenti e familiari avevano affisso una targa per ricordarla come parte della comunità universitaria.
A distanza di tanti anni, sono in molti, in effetti, a non aver dimenticato la sua storia: aveva appena 22 anni quando, il 9 maggio del 1997, fu raggiunta al volto, dietro l'orecchio sinistro, da un proiettile calibro 22 mentre passeggiava all'interno del campus di Piazzale Aldo Moro, a Roma, insieme all'amica Jolanda Ricci. Cinque giorni dopo si spense al Policlino Umberto I nonostante i tentativi dei medici di salvarla.
Frequentava la facoltà di Giurisprudenza, ma alle spalle aveva anche un discreto passato come campionessa sportiva, nella scherma; quando era stata soccorsa le sue condizioni erano apparse subito gravissime. I medici avrebbero stabilito che il proiettile, colpendola, si era diviso in undici frammenti, provocandole diverse lesioni.
Le indagini partirono subito serrate e si concentrarono, in un primo momento, sulla pista terroristica: il 9 maggio era un giorno particolare, soprattutto per la città di Roma. Si commemorava, infatti, l'anniversario dell'omicidio dell'onorevole Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse e il ritrovamento, all'interno di una Renault rossa in via Caetani, del suo cadavere.
Si pensava che i due delitti potessero essere collegati; la ragazza non era iscritta, però, ad alcun partito. Non aveva senso che qualcuno se la prendesse proprio con lei. Cominciò a farsi strada, quindi, l'idea che la giovane potesse essere stata colpita per sbaglio. I sospetti caddero, in particolare, sui dipendenti di un'impresa di pulizie che operava all'interno dell'università, notoriamente appassionati di armi.
Poi, nel corso degli accertamenti di rito, la polizia scientifica rilevò tracce di polvere da sparo sul davanzale dell'aula 6, riservata agli assistenti di Filosofia del Diritto, al primo piano dell'edificio di Giurisprudenza e Statistica, che affacciava sul vialetto percorso dalla 22enne quando fu colpita.
Si riuscì a capire, analizzando i tabulati del telefono presente all'interno dell'auletta, che al momento dell'omicidio qualcuno era presente: si trattava della dottoranda Maria Chiara Lipari, figlia dell'ex parlamentare democristiano Nicolò Lipari. Interrogata, la ragazza sostenne di non aver visto nessuno; poi fece un nome: quello di Gabriella Alletto, segretaria dell'Istituto.
Fu quest'ultima, a sua volta, a dire: "Ho visto Scattone con la pistola in mano e Ferraro mettersi le mani nei capelli in un gesto di disperazione". Si trattava di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, che alla fine - nonostante il mancato ritrovamento della pistola - furono incastrati e condannati, rispettivamente, a cinque anni e due mesi e quattro anni e due mesi di carcere.
Stando a quanto ricostruito dall'accusa, fu il primo a sparare; il secondo, semplicemente, lo coprì. Per i corridoi, riportò qualcuno, si erano vantati di aver compiuto "il delitto perfetto". Il movente? Non è mai stato accertato.