E insomma: la situazione si era fatta davvero troppo pesante per essere trascinata anche di un solo ulteriore giorno. Gennaro Sangiuliano, nel pomeriggio di oggi, 6 settembre 2024, si è dimesso. L'esponente di Fratelli d'Italia ha firmato una lettera di dimissioni irrevocabili. Ma, a rischio di stonare ricordandolo in questo momento di pathos collettivo, la sua capitolazione non è certo la prima nei panni di ministro. E di certo non sarà l'ultima. Solamente negli ultimi dieci governi, prima di Sangiuliano sono stati ben 32 i ministri che, per i motivi più vari, hanno gettato la spugna.
Diciamoci la verità: Gennaro Sangiuliano non aveva scelta. Giorgia Meloni gli aveva confermato una fiducia a tempo (probabilmente fino al G7 della cultura in programma il 19, 20 e 21 settembre a Pompei), ma il peso dell'imbarazzo del caso Boccia si è rivelato così pesante da non essere più sopportabile. Così, carta e penna, Sangiuliano ha ritenuto che il suo "gran lavoro" non potesse "essere macchiato e soprattutto fermato da questioni di gossip", ha ripetuto di non aver mai speso un euro di soldi pubblici per Maria Rosaria Boccia, ha annunciato battaglia legale e querele. Fin qui la cronaca: ma anche se in questo momento a Sangiuliano stesso sembrerà incredibile, non è certo il primo a trovarsi in questa situazione.
Solamente prendendo in esame gli anni Duemila, negli ultimi dieci governi, si sono dimessi ben 32 ministri. Per motivi personali, giudiziari, politici: da Francesco Storace a Clemente Mastella, da Claudio Scajola (nel 2002 aveva definito "un rompicoglioni" il giuslavorista Marco Biagi appena assassinato dalle Nuove Br) a Maurizio Lupi, da Federica Guidi a Elena Bonetti, da Teresa Bellanova a Giuseppe Fioramonti. Tutte le loro vicende sono state rimesse, di volta in volta, alla valutazione politica del presidente del Consiglio in carica, anche se il premierato, la riforma che proprio il Governo Meloni vorrebbe per dare al premier il potere di nomina e di revoca dei singoli ministri, non è di certo ancora in campo. Il Parlamento vota la fiducia all'insieme della squadra governativa. Però, ha anche il compito di controllare l'operato del singolo ministro, tanto che a Montecitorio e a Palazzo Madama può prendere forma una mozione di sfiducia individuale.
Sta di fatto che nella storia repubblicana, su un totale di 83, una sola volta un ministro ha subito una sfiducia parlamentare: correva il 1995 e la capitolazione a Montecitorio toccò al ministro Filippo Mancuso. Il suo fu un vero e proprio caso di scuola, inserito poi anche nei manuali di diritto costituzionale. Per dirne la portata: la prima sfiducia fu a carico di Giulio Andreotti ministro degli Esteri nel 1984 (Governo Craxi) per il caso Sindona. E prima di lui l'avevano sfangata tutti. Cosa avvenne, allora, nel 1995? Mancuso, a gennaio, fu nominato ministro di Grazia e Giustizia (così si chiamava all'epoca) del Governo di Lamberto Dini. In tali vesti, avviò delle ispezioni sul pool di Mani Pulite e dalle indagini emerse che i magistrati di Milano, all'epoca ancora potentissimi, utilizzavano la custodia cautelare per fare pressioni psicologiche e ottenere delle confessioni. Ma Mancuso, nei mesi di lavoro in via Arenula, entrò in rotta di collisione anche coi magistrati della Procura di Palermo, che accusò di mancate indagini sulla mafia. Tutto questo, lo mise al centro di polemiche violentissime. Davanti alle quali, in ogni caso, rifiutò di dimettersi. Mancuso, magistrato palermitano classe 1922, a ottobre del 1995, preferì affrontare il Parlamento pronunciando il suo ultimo discorso in cui attaccava anche l'allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Fu sfiduciato con 173 voti contrari dei deputati in quota Progressisti, Partito Popolare, Lega Nord e Rifondazione Comunista.