Quando uccise l'ex fidanzata Alessandra Matteuzzi, 56 anni, in via dell'Arcoveggio a Bologna, Giovanni Padovani era arrabbiato per essere stato lasciato e voleva punirla. A scriverlo nero su bianco nelle motivazioni della sentenza che, lo scorso novembre, ha confermato l'ergastolo per l'ex calciatore 28enne, sono i giudici della Corte d'Assise d'Appello.
"L'imputato ha considerato la vittima come un oggetto di proprietà, non come una persona a cui riconoscere una scelta di libertà o di dissenso", si legge in un passaggio del documento.
Era l'agosto del 2022 quando, nonostante fosse sottoposto a un divieto di avvicinamento, Padovani aspettò che l'ex fidanzata Alessandra Matteuzzi rientrasse a casa, cogliendola di sorpresa a pochi passi dal portone e aggredendola prima con calci e pugni, poi con un martello che aveva portato con sé e addirittura con un una panchina.
I giudici di primo grado e secondo grado lo hanno riconosciuto colpevole di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi, dal legame affettivo e dallo stalking, ritenendo che, quando agì, fosse pienamente capace di intendere e di volere. A dimostrarlo, secondo loro, il fatto che, quando ebbe la possibilità di fermarsi - essendo un testimone intervenuto a calmarlo - non lo fece, continuando a infierire sulla vittima.
Il servizio mandato in onda dalla trasmissione Rai "La Vita in Diretta" dopo la condanna in Appello di Padovani, lo scorso novembre.
Padovani, scrivono i giudici, "viveva in un contesto sociale del tutto lineare e privilegiato, in cui era integrato e in cui svolgeva un ruolo invidiabile e gratificante, essendo un calciatore". Tenendo conto di ciò, la sua condotta appare quindi ancor più "abietta, ingiustificabile".
I periti che lo hanno visitato in carcere su richiesta della difesa - che ha sempre cercato di dimostrare che al momento dei fatti non fosse lucido, a causa di presunte patologie di cui soffrirebbe - hanno concluso che, "simulò, con alta probabilità, nel corso dei test a lui sottoposti, le risposte".
L'obiettivo? Indurre chi di dovere a credere che fosse mentalmente instabile. Il suo avvocato, Gabriele Bordoni, aveva anche chiesto ulteriori esami, tra i quali una risonanza magnetica (come ha fatto oggi l'avvocata di Alessia Pifferi): la decisione è stata, alla fine, contraria.
Non è tutto. Nelle motivazioni, i giudici si soffermano anche sui comportamenti di Padovani prima dell'omicidio. Parlando, in particolare, di "sequenza di condotte tipicamente ossessive e persecutorie" da lui poste in essere nei confronti della vittima.
O, ancora, di "tipica, quasi da manuale, condotta di atti persecutori progressivamente più invasiva messa in atto, in modo consapevole" da parte sua. Matteuzzi, non a caso, lo aveva denunciato per maltrattamenti e stalking.
Una circostanza che, evidentemente, non bastò ad evitare il peggio. Coloro che accorsero sul luogo della tragedia hanno raccontato che, anche quando la donna era ormai inerme, Padovani continuava ad insultarla.
A pesare sulla decisione dei giudici di non riconoscergli attenuanti, anche il suo mancato pentimento. "Si reputa - scrivono - che non vi sia stato un reale pentimento in capo all'imputato, ovviamente non nel corso della sua ideazione del crimine, in cui il progredire di un odio crescente verso la vittima non ha avuto flessioni, ma neppure dopo il gesto efferato commesso contro di lei".
Determinato, lucido, senza scrupoli. Questo il ritratto dell'uomo che emerge dalle parole della Corte, che ricostruiscono l'inferno vissuto da Matteuzzi prima e durante l'atto. Padovani, quella sera, la avvicinò mentre era al telefono con la sorella, che a un anno dai fatti avrebbe dichiarato di sentire ancora le sue urla.
Difficilmente potrà dimenticarle. "Chiamava me e il mio compagno per dirci che Alessandra frequentava altre persone", ha detto. Poi il tragico epilogo. La 56enne morì dopo venti minuti di agonia. "Chiedo giustizia", disse la sorella, ma per un punto definitivo si aspetta ancora la Cassazione.